Caposaldo della letteratura del Novecento, Il Processo nel 1962 diventa anche un classico del cinema grazie all’amore di Orson Welles verso le opere di Franz Kafka.
Forse il più europeo fra i registi statunitensi, Welles, che firma pietre miliari del cinema come Quarto Potere, poi riscopre Shakespeare e altri classici, ora si sofferma sull’autore praghese. In maniera più specifica, riprende un cult letterario come Il Processo e ne fa un’opera per il cinema fedele allo scritto di Kafka, e allo stesso tempo molto personale.
Quante volte ci siamo sentiti piccoli insetti inutili e indifesi come Gregor Samsa. Quante volte abbiamo vestito i panni di Josef K., un insignificante essere sospettato e sospettoso. Tutti siamo stati, almeno una volta, Kafka: perduti in un mondo che non ci si confà, in una vita che forse non abbiamo vissuto e non stiamo vivendo appieno.
Welles trasporta in immagini la cupa vicenda di K., attraverso l’attore americano Anthony Perkins. Due anni prima era stato Norman Bates in Psycho. Sotto Welles è il timido e preciso Josef K. Nel film anche Jeanne Moreau, Romy Schneider, Arnoldo Foà e lo stesso regista.
La trama
Svegliatosi per andare al lavoro, Josef K., si ritrova due specie di poliziotti in camera da letto. I due lo accusano di qualcosa che ha fatto, dichiarandolo in arresto. Non viene messo in stato di detenzione, ma è solo costretto a presenziare dinnanzi alla corte suprema.
Sbrigate le sue faccende nell’azienda dove lavora come impiegato, K. va al palazzo di giustizia. Qui conosce un ambiente estraneo, oscuro, abitato da individui della peggior specie. Visto che non ha ancora capito di cosa è accusato, decide di andare dal potente avvocato Hastler. Quest’ultimo però non risolve la sua situazione, anzi si dimostra ancora più corrotto dello stesso sistema giudiziario.
K., che non conoscerà mai la sua vera colpa, vaga come in un limbo senza capire realmente cosa stia accadendo. L’unica cosa certa, sono i due galoppini, forse anche loro servi di una giustizia inarrivabile, che lo portano lontano, fuori città, e lo giustiziano.
In una visione grandangolare della città e del paesaggio che ci ruotano attorno, Welles gira un’opera sublime sotto vari punti di vista. Dal punto di vista estetico, la ricreazione di spazi, camere e palazzi si intreccia con l’arte espressionista del primo Novecento. Si intreccia anche con i film della stessa epoca avanguardista come Il gabinetto del Dottor Caligari o Metropolis di Fritz Lang.
Tra scenografia e fotografia, l’alienazione della vicenda di K. si mostra grazie all’ambiente circostante e ad un bianco e nero che è crudo e tagliente. Anche la stessa recitazione è sulla stessa lunghezza d’onda. Come nel libro, l’unico normale sembra il protagonista. Il resto dei personaggi è mosso da un aura allucinante nei modi e da una morale nella quale lui non si riconosce. Ma forse è proprio lui la mosca bianca, l’estraneo che non può sentirsi parte della stessa società.
Welles, che ne Il Processo interpreta l’autoritario avvocato Hastler, gira quest’opera partendo con un ritmo lento, quasi noioso. La vicenda diventa sempre più inarrestabile ogni qual volta il personaggio principale si avvicina alla verità. Il finale, quando K. viene arrestato nuovamente e poi giustiziato, è terrificante per la velocità con il quale si compie. Ad aprire e chiudere il dramma, è l’Adagio di Albinoni e la voce fuori campo del regista.
Nonostante alcune differenze col romanzo, Il Processo di Welles è un’opera d’arte. Un’opera che continua ad essere apprezzata e derubata di qualche suo prezioso elemento registico, estetico, recitativo o scenografico.
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