David Lynch è sicuramente uno dei registi contemporanei più talentuosi del XXI secolo. Oscar alla carriera nel 2019, Lynch è l’autore di pellicole di successo quali Mulholland Drive, Inland Empire, Twin Peaks e altri grandi opere. Quest’oggi abbiamo deciso di cimentarci nella difficile analisi di Blue Velvet, addentrandoci in un mondo fatto di simbolismi e mistero.
Proiettato per la prima volta nel 1986, Velluto Blu è uno dei film più famosi del visionario regista americano David Lynch. Divenuto celebre in poco tempo grazie alla potenza delle immagini, le coinvolgenti colonne sonore ma sopratutto per le forti critiche legate alla violenza di alcune sequenze e alla presenza di scene di nudo con protagonista Isabella Rossellini, Velluto Blu resta tutt’oggi un elemento fondamentale non solo per la comprensione della poetica del regista ma anche per comprendere l’evoluzione del cinema americano, che tramite quest’opera si spoglia della sua maschera di ipocrisia e buon costume tipica della filmografia hoollywoodiana, per avvicinarsi ad una visione più spietata (ma non per questo meno fantasiosa) della realtà.
Velluto Blu – La trama
Costretto a far ritorno a Lumberton, una tipica cittadina del Nord Carolina, il giovane Jeffrey (Kyle MacLachlan) trova per caso un orecchio mozzato in un campo. Deciso a far luce su questo strano caso, Jeffrey e la sua amica Sandy (interpretata da una giovanissima Laura Dern) si ritrovano coinvolti nel perverso gioco di Frank (Dennis Hopper), sadico e pericoloso criminale che ha costretto l’affascinante cantante Dorothy (Isabella Rossellini) a sottostare ai suoi giochi perversi tramite il ricatto. Se al giorno d’oggi la trama del film può risultare ordinaria e persino banale, dobbiamo ricordare che per il periodo in cui venne prodotta non è affatto così. L’opera ricevette infatti un’aspra accoglienza dall’allora direttore della Mostra del Cinema di Venezia, che reputava l’interpretazione della Rossellini un’offesa per i suoi illustri genitori, il regista Roberto Rossellini e l’attrice Ingrid Bergman. Il personaggio di Dorothy viene infatti mostrato più volte in nudi integrali, in scene che dall’iniziale atmosfera erotica sfociano nella violenza e nella perversione. Questi elementi però non sono da associare esclusivamente al personaggio di Frank (che grazie alla magistrale recitazione di Dennis Hopper risulta odioso e fastidioso) ma a Dorothy stessa che ormai preda del suo aguzzino si rivela essere sia vittima che carnefice, in un dualismo tipico della poetica del regista. Con lo svolgersi della vicenda appare chiaro che la tranquillità dell’allegra cittadina è solo una faccia della medaglia, opposta ad una realtà fatta di droga, violenza e corruzione.
Freud e il simbolismo
Come tutti i grandi artisti, si può trovare un fil rouge nella filmografia di David Lynch, che inizia dalla sua prima opera Eraserhead – La mente che cancella (1977) fino a What did Jack do? (2017) passando ovviamente per la serialità con Twin Peaks. Elemento imprescindibile della sua poetica sono il mistero e il simbolismo, tratti caratteristici della sua regia che esprime tramite le sequenze oniriche, aspetto spesso frequente nei suoi film e che non risulta mai banale. Ed anche Velluto Blu non fa eccezione alla regola: sotto il travestimento da film noir, l’opera si dimostra essere un saggio sulle pulsioni dell’animo umano, un’attenta analisi della filosofia freudiana che arriva ad includere anche il concetto di cinema stesso. In quest’ottica, la pellicola e i suoi personaggi assumono tutt’altro significato, a cominciare da Jeffrey che si rivela essere l’alter ego del regista. Lo possiamo evincere dal carattere del giovane, che di fronte ad un mistero quale quello di un orecchio reciso in un campo, non può fare a meno di cercare di scoprire la verità dietro ad esso; esattamente come David Lynch, che con i suoi film indaga l’inconscio e le sue ragioni, dimostrando che dietro ad un’apparenza di “normalità” si cela sempre un mistero da rivelare.
Non è un caso infatti che il mistero in Velluto Blu abbia inizio con un orecchio: l’organo di senso più vicino al cervello, lo stesso orecchio che ad un quarto del film viene inquadrato talmente da vicino da dare l’impressione allo spettatore di entrarci dentro. Ogni scena diviene quindi un’allegoria, esattamente come i suoi personaggi: quando Jeffrey si rinchiude nell’armadio di Dorothy per spiarla è impossibile non pensare al voyerismo, non solo inteso nella sua accezione erotica, ma come caratteristica principale dello spettatore al cinema, passivo di fronte alla narrazione. Eppure, esattamente come nei sogni dove si può affermare con certezza il significante ma non il significato, la scena ha un cambio di direzione: dopo essere stato scoperto da Dorothy e aver avuto una breve parentesi erotica con lei, Jeffrey è di nuovo costretto a rinchiudersi nell’armadio, assistendo allo stupro di Dorothy da parte di Frank. Questa volta ad essere rappresentato è il complesso di Edipo dove Dorothy assume il ruolo di oggetto del desiderio/madre mentre Frank quello del padre. Non è un caso infatti che la narrazione abbia inizio con l’ictus del padre di Jeffrey (per quel poco che viene mostrato, una figura positiva) e che questo personaggio ricompaia solo alla fine del film, ovvero alla morte di Frank, antagonista principale. Ma non è solo questo elemento a far coincidere il personaggio di Frank con quello del padre (qui inteso in senso concettuale): alla prima entrata in scena di Dorothy nello Slow Club Jeffrey guarda la cantante in modo trasognato, nello stesso modo in cui Frank guarda la propria vittima, dimostrando una vicinanza fra i due personaggi. Frank si rivela quindi essere molto più di un gangster folle: egli incarna l’aspetto più negativo dell’uomo, ciò che il giovane Jeffrey potrebbe diventare, un essere spinto esclusivamente dagli istinti (Voglio fottere qualunque cosa si muova!) e schiavo delle sue pulsioni. Questo implica non solo le pulsioni erotiche e violente, ma anche la necessità di affetto (durante lo stupro si rivolge a Dorothy con il vezzeggiativo mammina) e di inclusione, dimostrato dall’atteggiamento che Frank ha con i suoi scagnozzi e talvolta con lo stesso Jeffrey.
Se da un lato Jeffrey è chiamato a scegliere quale uomo diventare, dall’altro è costretto a scegliere fra l’amore di Sandy e quello di Dorothy: mentre quest’ultima è divisa fra il bisogno di essere salvata e il piacere del gioco sadico in cui lei è la vittima (un dualismo simile a quello di Frank), Sandy si presenta come la tipica ragazza di buona famiglia, ingenua e di buon cuore. Già dalla sua entrata in scena si può intuire la funzione del suo personaggio: Sandy emerge dalle tenebre della sera, vestita di chiaro e pronta a dare risposte alle domande di Jeffrey, a differenza di Dorothy, che viene mostrata spesso in ambienti poco illuminati, confusa e ambigua anche nelle sue spiegazioni. Gli ambienti in cui le due donne si muovono sono un altro elemento esplicativo della loro natura: ne è una chiaro esempio la sequenza in cui Jeffrey e Dorothy sono condotti da Frank in uno squallido bordello, ad un degradante party tenuto dall’ambiguo Ben il Soave, che si contrappone invece alla sequenza successiva in cui Jeffrey e Sandy si recano ad una festa universitaria.
Naturalmente anche nel finale viene dato ampio spazio al simbolismo: dopo aver eliminato la minaccia costituita da Frank (interessante che il colpo che uccide Frank sia sparato da Jeffrey nello stesso armadio in cui si nasconde all’inizio del film) la sequenza successiva alla sua morte ci mostra il risveglio di Jeffrey in un giardino, in quella che è a tutti gli effetti una giornata perfetta. La macchina da presa esce dall’orecchio del protagonista per mostrarci la sua famiglia e quella di Sandy riunita per un pranzo. Mentre ci domandiamo se gli eventi che abbiamo appena visto siano nient’altro che un sogno del protagonista, l’inquadratura ci mostra il padre di Jeffrey: allegro e giovale, si dimostra in perfetta salute adesso che la vicenda si è conclusa. Nell’ultima sequenza ci viene mostrato un pettirosso mentre divora un insetto: gli stessi insetti che ci vengono mostrati all’inizio del film un attimo prima dell’ictus del padre di Jeffrey e lo stesso pettirosso del sogno di Sandy, sinonimo di un bene che ritorna ad illuminare questo strano mondo. E anche se il finale si presenta come un lieto fine con la metafora del bene che riesce a trovare nutrimento anche nel male (Non capisco come facciano a nutrirsi di insetti…) non si può fare a meno di avvertire una leggera sensazione di disagio mentre vengono inquadrati nuovamente i simboli della perfezione apparente: i fiori colorati, lo steccato bianco e uomini che salutano sorridenti verso lo schermo.
Scritto in collaborazione con Dario Guastella.
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