Idioti è un film realizzato nel 1998 ed è la prima e unica opera di Lars von Trier che aderisce esplicitamente ai dettami del “Dogma 95”, il coraggioso manifesto cinematografico creato dalla collaborazione dello stesso regista con Thomas Vinterberg e firmato da un collettivo di cineasti danesi i quali, stufi del cinema pop e della sua “illusione di pathos e di amore”, dell’ingiustificata “tempesta tecnologica” e soprattutto distanti dal fine che si proponevano i cosiddetti “registi decadenti”, un fine consistente nell’“ingannare il pubblico” (sono tutte espressioni tratte dallo stesso manifesto), hanno piuttosto inseguito la strada inattuale di un cinema onesto e provocatorio, fatto appunto di dogmi in apparenza inutilmente restrittivi ma che in verità hanno facilitato l’operazione di eliminare il superfluo dall’arte (ad esempio vietando l’uso di scenografia, luci speciali, filtri, ecc.), un superfluo così invadente che ha rischiato e rischia tutt’ora di diventare l’essenza dell’arte contemporanea.
Le ultime frasi del manifesto potrebbero aiutare ulteriormente a riassumere il ruolo del regista che aderisce a questa rivolta: “Non sono più un artista. Giuro di astenermi dal creare un’opera […]. Il mio obiettivo supremo è di trarre fuori la verità dai miei personaggi e dalle mie ambientazioni.”
Trama
Il film inizia mostrandoci una delle protagoniste, Karen (Bodil Jorgensen), donna introversa e sconsolata, che pranza in solitudine al ristorante. Qui fa la conoscenza di un gruppo di disabili mentali e dei loro accompagnatori; in particolare uno fra loro, tale Stoffer (Jens Albinus), la prende in simpatia e vuole ad ogni costo portarla con sé. Karen lo segue ma scopre con rammarico che quella a cui aveva assistito era solo una messinscena: nessuno fra loro è un vero disabile.
Il gruppo al completo è composto da una decina di ragazzi che simulano di avere un handicap, approfittando della bontà o del buonismo altrui per ricevere i “vantaggi” che la malattia comporta. Karen, spaventata dalla loro immoralità, è pur felice di restare con persone che sono alla ricerca di legami autentici. Decide perciò di trasferirsi nella villa in cui abitano tutti insieme e qui avviene progressivamente la trasformazione di Karen in “idiota”. La villa appartiene allo zio di Stoffer, che ignora tutte queste vicende e anzi aveva affidato al nipote il compito di vendergli l’abitazione. La loro situazione è allora messa a rischio da ciò e non solo: dovranno infatti riaffrontare la vita che si sono lasciati alle spalle.
La rivoluzione degli idioti
Come preannunciava l’introduzione, il minimalismo formale di quest’opera ha dato il via libera a un’esplosione di contenuti. La ribellione degli idioti ideata da von Trier è un atto che si situa al di là del bene e del male. Essa si può interpretare come un ponte storico: mentre negli anni ’60 l’ideale di sovvertire l’ordine borghese confluiva in enormi rivolte collettive, in cui masse di ragazzi si univano per protestare, oggigiorno e in seguito al fallimento di quegli ideali, la rivolta verso la società diventa sempre più una questione personale, usurata sul nascere da una fiacca retorica e che per questo non sortisce effetto. Allora l’opera si pone nel mezzo di questo infelice trapasso in cui né un’infinità di persone né un solo individuo combatte per la propria libertà, ma il ruolo del protagonista è affidato al gruppo ristretto di “idioti”.
A questo proposito viene in mente anche il paragone con un capolavoro della letteratura mondiale, dal titolo quasi omonimo: L’idiota di Dostoevskij. Quasi ogni personaggio accusa il protagonista Myskin di essere un idiota, termine di cui l’invidia si serve per coprire la sua inaudita bontà. Spesso accade di scambiare per intelligenza l’uguaglianza di idee e per idiozia l’avere idee contrarie. Perciò in entrambe le opere, gli obiettivi puri e anticonformisti dei personaggi devono scontrarsi con una realtà troppo immatura per accoglierne gli insegnamenti.
Nella seconda parte del film si approfondisce il confronto tra i loro ideali e quelli della comunità circostante. Von Trier elabora così preziose intuizioni che dialogano con l’intento degli “idioti”, scovando dove il loro stile di vita è riuscito a liberarsi dalle catene della morale e dove invece si nasconde l’inganno del paradiso che si sono creati.
Ad esempio Von Trier ci mostra l’esperienza di Jeppe (Nikolaj Lie Kaas) e Josephine (Louise Mieritz) i quali, mentre nel resto della villa prende forma un’orgia che impegna quasi tutti, si appartano per concedersi a un amore monogamo che, in modo inatteso per lo spettatore, resiste persino nel rovesciamento dei valori tradizionali. Qui è come se il regista ci suggerisse che le vere rivoluzioni non avvengono negando completamente il passato ma piuttosto rifacendo un’autentica esperienza dei contrari. Tuttavia questo forte legame tra i due si spezza poco dopo mediante uno degli eventi chiave del film: l’arrivo del padre di Josephine. Questi iniziando con toni autoritari ma ancora calmi, arriverà alla fine della sequenza a riportare Josephine a casa con la cattive maniere.
Questa situazione, sommata a quella della visita dello zio di Stoffer che intima al nipote di accelerare la vendita della villa – mentre in realtà il gruppo scacciava via ogni potenziale acquirente – dà il via al disfacimento del gruppo. Stoffer capisce che è giunto il momento di cambiare e che tutti ora sono in grado di fare gli “idioti” anche nella “vita reale”. Allora inizia questo interessante esperimento e si tira a sorte su chi per primo deve cimentarsi.
Giunto il turno di Henrik (Troels Lyby), egli torna nel suo luogo di lavoro, una scuola dove insegna arte. In un meeting tra professori cui sono presenti anche alcuni “idioti” – è come se venisse esaminato contemporaneamente da due giurie – Henrik non riesce a “liberare” la sua idiozia. Finisce così per farsi assorbire nuovamente dalla vita precedente, rinnegando la parentesi ormai conclusa con i suoi amici.
Ma l’esperimento continua ed arriva il momento di Karen. Questa scena conclusiva è l’evento più drammatico, commovente ed esplicativo di tutta l’opera. Insieme a Susanne (Anne Louise Hassing, che svolge quasi il ruolo di “mamma” del gruppo) ritorna a casa e rincontra la sua famiglia. L’accoglienza è molto fredda. Karen e l’amica prendono posto sul divano e mangiano una fetta di torta. Ed ecco che avviene la trasformazione: la nostra protagonista inizia a comportarsi da idiota e riceve un energico schiaffo dal marito, mentre gli altri osservano confusi ciò che sta accadendo. Allora Susanne prende Karen per mano e la porta via; così si conclude il film.
Karen finalmente riesce a liberarsi della sua maschera di persona adulta e matura, è diventata di nuovo bambina di fronte al mondo e soprattutto di fronte alla famiglia, a dispetto delle imposizioni implicite ed esplicite a cui ogni nucleo familiare costringe, prima fra tutte quella di non essere infantili neanche nello scherzo. E al di là della disperazione e delle lacrime (anche queste escono fuori come a un bambino sgridato che andrebbe rieducato da zero) Karen si realizza come l’unica, fino a quello che ci è dato di vedere, che riesce a passare dall’ astratto ideale alla prassi più concreta.
Il movimento del Dogma 95 si è sciolto nel 2005, dieci anni dopo la sua creazione, e l’esperimento può considerarsi sotto molti aspetti perfettamente riuscito. In particolare l’attività del regista danese ha fornito un’esemplare risposta ad un arte più o meno preconfezionata, e al contempo ha mostrato le infinite capacità del cinema di reinventarsi. Inoltre in Lars von Trier – e in tutti i registi che egli ha influenzato – lo spirito di questa ribellione sopravvive ancora, sebbene la forma delle sue opere si sia liberata dalle restrizioni autoimposte, che appunto per questo vanno interpretate più come un punto di partenza che di arrivo. Un grandioso punto di partenza.
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