Frankenstein Junior – Perché è un cult senza tempo

Mi sono rivisto per settantesima volta Frankenstein Junior, capolavoro del 1974 diretto da Mel Brooks che ne scrisse la sceneggiatura insieme a Gene Wilder. Come la prima volta, non ho potuto trattenere le lacrime dal tanto ridere. Potrà sembrare una cosa scontata e alquanto banale, ma a distanza molti anni dalla prima visione, posso dire con certezza che questo è davvero il film comico più bello di sempre.

Rivedere Frankenstein Junior non è solo un bisogno, ma anche un dovere. Cult del 1974 diretto da Mel Brooks con Gene Wilder.

Ogni cosa è studiata alla perfezione e persino l’etichetta affibbiatagli di parodia del Frankenstein di James Whale con Boris Karloff, è ormai superata. Certo, perché Frankenstein Junior è ormai considerato un capolavoro a sé. È una rilettura del romanzo di Mary Shelley in chiave ironica ma che non si perde per strada. Non abusa del tanto caro “ridere per ridere”. Anche la comicità usata, in questo caso, è frutto di un lavoro ben pianificato che non getta in farsa il lavoro di Shelley né il film di Whale. Tutt’altro.

Brooks e Wilder cuciono attorno a questa storia un vestito nuovo, con un significato non meno profondo. Gli innestano una nuova linfa vitale e l’ironia che scaturisce la risata è un personaggio anch’esso, forse il più importante. Dall’altra parte l’importante lavoro fotografico e registico rende omaggio al cinema passato, per non parlare delle indimenticabili musiche di John Morris.

Nonostante la comicità abbia cercato di rinnovarsi, le commedie degli ultimi anni non sono altro che una pallida imitazione di questo cult, vero e grande esempio di cinema, inteso nel suo significato più grande. In un bianco e nero che catapulta lo spettatore agli albori del cinema, è doveroso vedere il film in lingua inglese, almeno una volta. Tuttavia, il doppiaggio italiano è perfetto e a volte migliore della versione della lingua originale.

La trama di Frankenstein Junior (Young Frankenstein)

Rivedere Frankenstein Junior non è solo un bisogno, ma anche un dovere. Cult del 1974 diretto da Mel Brooks con Gene Wilder.
La locandina di Frankenstein Junior

Il giovane chirurgo Frederick Frankenstein (Wilder), emigrato in America, sebbene ripudi il nonno Victor, considerandolo un pazzo e un ciarlatano, va in Transilvania per l’eredità lasciatagli dallo scienziato.

E cosa lascia? Un castello tenebroso, la domestica Frau Blücher (Cloris Leachman), il cui nome terrorizza i cavalli, e la sua biblioteca privata. È proprio in quella biblioteca che Frederick, assieme a Inga (Teri Garr), popputa assistente, e Igor (Marty Feldman), il servo gobbo e strampalato, troverà il modo per riportare in vita i morti.

It could work (Si, può fare!), grida ad un certo punto e si mette subito a lavorare per portare a termine quell’ambizioso progetto. Per sua disgrazia, Igor gli porterà un cervello anormale, e la mastodontica creatura che riporta in vita è in realtà un bonaccione con la paura del fuoco ma con un enorme schwanzstücker.

Con lo zampino di Wilder, Frankenstein Junior è l’emblema di una poetica grottesca e irriverente ma sottile allo stesso tempo. Le battute e gli attori sono l’altro pezzo forte della pellicola di Brooks, che ricrea le inquietanti atmosfere dei film dell’orrore dell’epoca espressionista. Non solo si rivive in parte il primo film su Frankenstein e l’opera Il figlio di Frankenstein, ma anche il cinema di Fritz Lang, di Wilhelm Murnau e Paul Wagener.

Senza tempo restano alcune scene davvero indimenticabili. Fra le tante: la lezione di medicina, il primo incontro fra Igor e Frederick, la prima apparizione di Frau Blücher, la scena in cui si riporta in vita il mostro e quella dell’eremita cieco (interpretato da Gene Hackman), e infine, ma ce ne sarebbero moltissime altre da citare, la danza in teatro vestiti da veri e sofisticati dandy di città.

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