Le avventure di Peter Pan (1953)

Le avventure di Peter Pan – L’ombra eterna dell’infanzia

Questa è una storia senza tempo, di oggi come di domani.” Così recita il narratore nell’apertura. Già, perché le avventure di Peter Pan o, se si preferisce, l’avventura di essere bambini appartiene ad ognuno. Ma questo film, 14° classico Disney, uscito nel 1953, più che concentrarsi sull’infanzia in sé, mostra a tinte leggere il momento più delicato: quello della fine dell’infanzia e l’inizio del sentiero che conduce alla maturità. Tanti sono i modi in cui questo tema ha ispirato artisti di ogni epoca, che attraverso toni allegri o drammatici, disincantati o fiduciosi, hanno provato a rievocare la beatitudine dell’infanzia e la sua fine; ma è indubbio che questo film d’animazione abbia uno stile innovativo, soprattutto perché tenta di non scendere a compromessi con una visione “matura” del mondo. Esso prova, come ogni classico Disney, a riferirsi in prima istanza ai bambini, pur restando un prodotto destinato ad ogni età.

Prescindendo dai meriti della Disney bisogna ricordare che Le avventure di Peter Pan non è un soggetto originale. La figura di questo eterno bambino prese forma dalla penna dello scrittore James Barrie nell’inizio del secolo scorso. In particolare il film si rifà al romanzo Peter e Wendy, riprendendone fedelmente la trama, al netto di alcuni dettagli che in fondo è inevitabile si perdano in ogni trasposizione (non che ciò sia sempre un male, come spesso si sancisce con troppa fretta). Ad esempio, ma questo è un peccato, nella storia originale l’ombra di Peter veniva ritrovata dalla madre di Wendy, non dal cane, come nel film. Ciò era molto più significativo e allusivo verso il fatto che un adulto può al più catturare solo un’ombra dell’infanzia, ovvero una sua apparenza.

La storia verso cui siamo catapultati dalla destrezza dei Nine Old Men, i nove storici animatori Disney, nel loro ultimo lavoro insieme, narra le vicende di Peter Pan e Wendy Darling. Lei, una dodicenne primogenita di famiglia benestante, vive una lieta infanzia insieme ai suoi due amati fratellini. Inoltre è solita raccontar loro le storie di Peter Pan, un eterno bambino che abita nell’Isola che non c’è. Una notte Peter, insieme alla sua amica fata Trilli, si dirige proprio a casa Darling per recuperare la sua ombra. Tuttavia nel farlo sveglia i tre fratelli che lo supplicano di portarli con lui per vivere insieme qualche avventura.

Una scena che qui ci colpisce è quando Peter cerca di insegnare ai tre fratelli come volare, ma inizialmente non trova le parole per spiegarlo. In seguito ha un’illuminazione e dice loro di fare pensieri felici. La capacità di volare rappresenta metaforicamente l’immaginazione, la fantasia, insomma le peculiarità della fanciullezza, e queste capacità si dimostrano impossibili da spiegare. È impossibile cioè per un bambino spiegare cosa vuol dire essere bambini; fare solo pensieri felici è ciò che più si avvicina, ma non è ancora sufficiente a definirlo, tant’è vero che infine serve l’aiuto magico di Trilli per poter volare.

Non appena i nostri protagonisti giungono all’Isola che non c’è, che perlopiù è abitata da indiani, pirati e sirene, ha inizio una lunga serie di avventure. Queste avvengono in compagnia dei Bimbi Sperduti, un gruppo di bambini, seguaci di Peter Pan, che indossano vestiti di animali.

Tutte queste avventure hanno per antagonista Capitan Uncino e la sua ciurma di pirati, tra i quali spicca l’indimenticabile Spugna. Il capitano ha come unico obiettivo liberarsi di Peter Pan per vendicarsi di un torto subito tempo fa. Infatti in un duello, il ragazzo gli aveva tagliato una mano e data in pasto a un coccodrillo, il quale aveva ingoiato anche una sveglia. Questa col suo ticchettio preannuncia ogni volta l’arrivo dell’animale, terrorizzando il capitano.

Il simbolo della sveglia sviluppa ancora di più la logica interna del film, indicando un altro elemento di differenza tra l’adulto e il bambino. L’adulto è infatti rinchiuso nella dimensione del tempo organizzato secondo intervalli precisi che scandiscono le faccende da sbrigare nella giornata. Quando la sveglia suona è arrivato il momento di congedare l’ozio. Il bambino invece non può vivere il tempo con pesantezza, essendo libero dalle responsabilità; perciò è in grado di ridere di questa dimensione, come in effetti fa Peter Pan ogniqualvolta arriva il coccodrillo.

Dopo che Wendy viene rapita da Uncino, ha luogo il combattimento finale tra pirati e bimbi sperduti, in particolare tra il capitano e Peter Pan. Il nostro protagonista ha la meglio e riporta i tre fratelli a casa. Lo fa attraverso il vascello dei pirati di cui ormai si è impadronito e che attraverso la polvere di Trilli riesce a navigare nel cielo. Nell’ultima scena vediamo tutta la famiglia Darling scorgere dalla finestra il vascello di Peter Pan; in chiusura il padre, incredulo, afferma di averlo già vista da qualche parte da bambino.

Tanto altro potrebbe aggiungersi su questo film, il quale già all’epoca della sua uscita era destinato a fare la storia della Disney, giacché incarnava nel modo più diretto i temi e lo stile distintivi della casa di produzione. È però interessante richiamare brevemente un confronto critico che il recente film Un sogno chiamato Florida mette in scena. Questo lungometraggio, diretto da Sean Baker e con un sempre straordinario Willem Dafoe, ha per protagonisti un gruppo di bambini. Essi abitano con le rispettive famiglie in un hotel proprio ai margini del Walt Disney World, conducendo una vita nel degrado e nella povertà. Questi bambini (sperduti, verrebbe da aggiungere) simboleggiano gli emarginati dal mondo Disney. Vivendo in un contesto di estrema indigenza, sperimentano contemporaneamente l’infanzia e il suo termine, senza avere la possibilità di ritardare la chiamata alle responsabilità.

La sfolgorante luce irradiata da un film intramontabile come Le avventure di Peter Pan proietta necessariamente delle zone d’ombra che un’opera come quella di Sean Baker aiuta a non trascurare. Ciò nonostante il 14° classico Disney conserva il merito di tenere accesa la fiamma naturale dell’infanzia che l’età adulta tende purtroppo a ignorare, lasciandosi abbacinare da artificiali bagliori di libertà.

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