Non possiamo intraprendere un exursus storico o semplicemente argomentare le diverse teorie legate al modo di fare e concepire il teatro senza prendere in considerazione uno tra gli artisti più stravaganti, ingombranti, alchemici, visionari che il XX secolo abbia mai conosciuto: Antonin Artaud.
Le avanguardie sceniche del secondo Novecento sono senza dubbio enormi debitrici del contributo del pittore, poeta, drammaturgo, attore, regista teatrale francese che tutt’ora vive in mezzo a noi grazie ai suoi scritti, attuali e necessari più che mai, prima su tutti la raccolta di saggi all’interno del Teatro e il suo Doppio pubblicato da Gillamard nel 1938. Artaud conia per la scena da lui profetizzata un appellativo, Teatro della Crudeltà. Nella Seconda lettera sulla Crudeltà (1932) scrive: “Uso il termine crudeltà nell’accezione di appetito di vita, di rigore cosmico, di necessità implacabile, nel significato gnostico di turbine di vita che squarcia le tenebre, nel senso di quel dolore senza la cui ineluttabile necessità la vita non potrebbe sussistere; il bene è voluto, è la conseguenza di un atto; il male è permanente”.
Al pari di Georg Fush, una delle principali figure a dar voce all’esigenza di “riteatralizzare il teatro” e propugnatore di un’interpretazione dell’evento scenico in chiave dionisiaca, Artaud vuole ripristinare il rapporto perduto tra il teatro e il sacro, tra lo spettacolo e il rito, un rito di morte e di rinascita. Costruita su un universo espressivo, la scena da lui immaginata vuole sottoporre lo spettatore ad un’infusione di forza vitale. Antonin Artaud sostiene che “la scena è un luogo fisico e concreto che esige di essere riempito e di poter parlare il suo linguaggio concreto destinato ai sensi e indipendente dalla parola”; la parola articolata non viene osannata o eliminata ma altresì valorizzata spingendola ad assumere la stessa importanza che ricopre nel sogno e nella comunicazione dei mondi inconsci.
Secondo Artaud il regista teatrale viene trasformato “in una sorta di demiurgo e animato da un’idea di purezza implacabile, di realizzazione a qualunque costo, se vuole essere veramente un regista, cioè uomo di materie e di oggetti, deve svolgere nel campo fisico una ricerca del movimento intenso, del gesto patetico e preciso, che equivalga sul piano psicologico al più assoluto e totale rigore etico, e sul piano cosmico allo scatenamento di certe forze cieche che attivano ciò che devono attivare, e stritolano e bruciano, passando, ciò che devono stritolare e bruciare”.
L’attenzione di Artaud finisce inevitabilmente sulla partecipazione del pubblico e sul realizzare uno spettacolo catartico dove la scena e la sala diventano un unico organismo: “lo spettacolo ruoterà attorno al pubblico, bombardandolo da ogni lato con folgori visive e sonore”. Come fare dell’esperienza scenica un atto di vita che, attivando il contatto con le sorgenti del mondo pulsionale, incida sulla mente e sui sensi dello spettatore, come toccare la sfuggente giuntura che unisce lo spirito al corpo?
Dopo aver aderito per circa due anni al movimento surrealista di Andrè Breton attraverso un folto numero di lettere e manifesti, se ne distacca nel 1926 dopo che l’ala politicizzata del movimento opta per l’alleanza col partito comunista francese. Espulso dal movimento, Artaud fonda il Teatro Jarry (l’intestazione è un omaggio ad Alfred Jarry, autore dell’Ubu Re, importante testo della drammaturgia moderna) ma privo di mezzi, finanze e con attori poco fedeli, dovrà chiudere nel 1930 con solo quattro spettacoli presentati e non tutti amati dalla critica.
La salute di Artaud non è delle migliori e la sua psiche lo porta sfiorare con mano la follia. Ammirato come mito di libertà e innovazione, muore la mattina del 4 marzo 1948, seduto ai piedi del letto con una scarpa in mano.
In ogni caso, personaggi come Peter Brook, Jerzy Grotowsky, Samuel Beckett, Julian Beck e Carmelo Bene sono tra i tanti che del messaggio rivoluzionario e allo stesso tempo conservatore di Antonin Artaud ne hanno fatto un punto da cui partire ma anche un orizzonte da raggiungere.
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