Tra il luglio del 1914 e il novembre del 1918 il mondo venne funestato da un conflitto mondiale senza precedenti che contrapponeva gli imperi centrali (Germania, Impero Austro-ungarico e Impero Ottomano) ai cosiddetti Alleati, costituiti fondamentalmente da Francia, Regno Unito, Impero Russo, ai quali si andò ad aggiungere nel 1915 l’Italia. In quegli anni nel Bel Paese c’era un tasso di analfabetismo pari al 46,20% della popolazione; di conseguenza la maggior parte degli italiani mandati in guerra non sapevano neanche contro chi stavano combattendo.
La Grande Guerra, vero e proprio capolavoro del cinema italiano, parla proprio di loro, ovvero di tutte quelle persone che si ritrovarono, loro malgrado, in una cosa più grande di loro che non gli apparteneva. Il compianto Mario Monicelli, nella suddetta pellicola, racconta le vicissitudini del milanese Giovanni Busacca (Vittorio Gassman) e del romano Oreste Jacovacci (Alberto Sordi), due soldati di carattere completamente diverso, accomunati però da un evidente qualunquismo che li induce ad attuare qualsiasi tipo di escamotage pur di eludere qualsivoglia angheria bellica.
Vittorio Gassman incarna un personaggio che è alla stregua di quello incarnato ne I soliti ignoti; Giovanni Busacca è il classico italiano medio, furbastro e piacione, che paragona sarcasticamente il conflitto bellico a un lungo ozio senza un minuto di riposo. Alberto Sordi, invece, si cala egregiamente nei panni di un individuo all’apparenza meschino e vigliacco che pratica la tanto vituperata arte di arrangiarsi, uno di quelli che pur di non esporsi preferisce esclamare pedissequamente: “Bboni, state bboni.”
Nel corso della vicenda vedremo però che dietro l’apparenza i due protagonisti celano un animo nobile e coraggioso. Da menzionare risulta essere inoltre la divina Silvana Mangano nei panni di una prostituta sui generis che deciderà di concedersi solamente agli uomini che le piacciono. L’indimenticata attrice romana è l’emblema di tutte quelle donne coraggiose che riescono a farsi rispettare in ogni circostanza.
Il regista di Amici Miei e Speriamo che sia femmina, coadiuvato in fase di sceneggiatura da Age & Scarpelli e Luciano Vincenzoni, ebbe il grande merito di portare sul grande schermo una storia che, per la prima volta, sfatava il mito di una guerra eroica dell’Italia, diffuso durante il periodo fascista e nel secondo dopoguerra.
Inserito nella prestigiosa lista dei 100 film italiani da salvare La Grande Guerra, uscito nelle sale italiane nel 1959, si aggiudicò tre David di Donatello e due Nastri d’Argento. Conquistò inoltre l’ambito Leone d’oro al Festival del cinema di Venezia in ex-aequo con Il generale Della Rovere, film diretto dal maestro Roberto Rossellini. Da antologia risulta essere un piano sequenza in cui un gruppo di soldati marcia impassibile mentre sullo sfondo si assiste alla fucilazione del nemico. Nella suddetta scena Mario Monicelli mostra allo spettatore tutto lo svilimento del valore umano causato dalla guerra, la quale è colpevole di normalizzare la morte.
Mi congedo con il seguente aforisma del compianto filosofo francese Jean Paul-Sartre decisamente pertinente col significato intrinseco de La Grande Guerra: “Quando i ricchi si fanno la guerra tra loro, sono i poveri a morire.”
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