Siamo nel 1976 e Martin Scorsese, al suo quinto lungometraggio, firma il capolavoro: Taxi Driver.
Vincitore della Palma d’oro al 29° Festival di Cannes e candidato a 4 premi Oscar, tra cui miglior film e miglior attore protagonista a Robert De Niro, questa è la seconda collaborazione tra l’attore e il regista dopo il film Mean Streets, uscito 3 anni prima. De Niro, per prepararsi al ruolo, ottenne realmente la licenza da tassista e nelle settimane precedenti all’inizio delle riprese viaggiava a bordo di un autentico taxi per le strade di New York, portando i clienti da una parte all’altra della città.
Un aneddoto divertente fu quando alla guida della vettura l’attore venne riconosciuto da un cliente, che si rattristì per lui vedendolo lavorare come tassista, e deducendo quindi che avesse smesso di fare cinema. De Niro infatti era già famoso al grande pubblico, soprattutto grazie all’Oscar vinto per Il Padrino – Parte II.
Indubbiamente con questo film, che vanta tecniche cinematografiche audaci e sperimentali, con movimenti di macchina mai visti prima di allora, Martin Scorsese si è consacrato come il più grande regista della New Hollywood, un periodo di grande rinnovamento del cinema statunitense, periodo che ha condizionato poi tutto il cinema a venire fino ai giorni nostri.
Molte le scene improvvisate, tra cui quella ormai diventata iconica, con De Niro davanti alla specchio che parlando con se stesso recita la celebre frase: “You’re talking to me?” (in italiano: “Stai parlando con me?”).
La sceneggiatura del film è firmata dal grande Paul Schrader. Lo scrittore e regista ha dichiarato di essersi ispirato a La nausea di Jean-Paul Sartre e a Lo straniero di Albert Camus, quindi ai temi della solitudine e dell’esistenzialismo. Ed è attraverso queste due tematiche che possiamo iniziare a parlare di Taxi Driver.

Il film ci racconta le vicende di Travis Bickle, 26 enne ex marine reduce della guerra del Vietnam. Come molti altri giovani, anche il nostro protagonista, rientrato in patria, cerca un posto nella società, ha problemi di stress e ansia, non dorme e alienato vaga per la città. Si fa assumere come autista in una compagnia di taxi, e ottenuto il lavoro inizierà a lavorare esclusivamente durante i turni notturni. Di giorno, finito di guidare, vagabondeggia senza amici, senza famiglia, né relazioni sentimentali, fino a quando non si invaghisce di una giovane donna che lavora per la campagna elettorale del senatore Palantine. Proverà quindi a conquistarla, ma la sua incapacità di vivere e di vedere per se stesso un miglioramento possibile della sua stessa condizione psicologica, lo porterà a fallire miserabilmente, portando la donna tra l’altro anche alla visione di film pornografici.
Continua così la sua quotidianità tra lavoro e il vuoto assoluto. Disgustato da tutto il degrado che osserva intorno a lui, inizia a covare un malessere evidente, che lo porterà ad azioni sconvolgenti. In un precipitare inesorabilmente in un profondo abisso, noi spettatori possiamo ascoltare costantemente i suo pensieri, grazie ad una voce fuori campo, e il suo mantra preferito che sentiamo più volte è quello di evidenziare la sua solitudine e il suo malessere. Cercherà, invano, aiuto e consigli nel suo collega più anziano “Mago” (Peter Boyle), il quale non capendo realmente di quale aiuto abbia bisogno Travis, gli consiglia banalmente, come spesso gli adulti fanno con i più giovani, di non pensare ai problemi, ma di divertirsi e di andare a donne. Una delle scene più intime e più belle della pellicola.
Travis continua quindi la sua routine, fino a quando incontrerà per puro caso una giovane prostituta di appena 12 anni (Jodie Foster), la quale cercando di scappare dal suo protettore (Harvey Keitel), si infilerà nel taxi, durante una fine corsa. L’incontro con questa realtà, e con l’ennesimo episodio di degrado e malessere, sarà la “goccia che fa traboccare il vaso”, la scintilla di trasformazione per il nostro protagonista.
Travis infatti si procurerà diverse armi da fuoco, inizierà ad allenarsi costantemente, smetterà di bere alcol e di mangiare cibo cattivo, si raserà i capelli, lasciandosi soltanto una cresta al centro, ottenendo così un taglio alla “moicana”. Tutto questo per inseguire la sua “missione” di giustiziere: vuole ripulire la città da quella feccia che secondo lui rovina l’intera società, tra cui il bordello che tiene in ostaggio la giovane prostituta. E in un’epica e sanguinosa sparatoria finale, riuscirà nell’intento, passando quasi come un eroe per la stampa e per i media.

Ma a che prezzo? Ed è qui la morale del film. In che tipo di società stiamo vivendo? Che cosa stiamo facendo per aiutare questi giovani uomini, soli e problematici, in questo caso reduci di una tra le più crudeli e sanguinose guerre che siano mai avvenute, la guerra del Vietnam? Assolutamente nulla. E questa ne è la prova. L’ennesima prova. Travis Bickle infatti è il frutto di una società malata, è il figlio legittimo di un paese violento, che lascia gli ultimi indietro senza curarsi di loro.
La tematica trattata in questo film, di uomini prevalentemente soli, che combattono contro i proprio demoni, frutto della società in cui vivono, è cara al cinema esistenzialista, specchio del mondo in cui viviamo, e la critica socio-politica che fa Martin Scorsese è, se vogliamo, paragonabile a quella che fa Stanley Kubrick, qualche anno prima, nel suo Arancia Meccanica (1971), o anche al più recente Joker di Todd Phillips (2019).
Niente di nuovo quindi.
Tranne il fatto di continuare a vivere in una società malata e guasta, di esserne profondamente consapevoli, e di continuare a scegliere semplicemente di osservarla, proprio come facciamo al cinema, passivamente, come semplici spettatori, senza fare niente per cambiarla.
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