Train de vie di Radu Mihăileanu – Immaginare per sopravvivere

Benigni non è stato il solo ad aver toccato il tema della Shoah con ironia trasformando la tragedia in una commedia brillante e leggera. Nel 1998 il regista rumeno Radu Mihăileanu dirige Train de vie e racconta, a modo suo, la follia dell’olocausto.

A fare da sfondo a questa favola è in parte uno Shtetl, ovvero un villaggio di ebrei ortodossi dell’Est Europa. La ricostruzione impressionante e ben fatta dell’insediamento ebraico ci porta all’interno di questa mite comunità strutturata secondo una gerarchia antica che vede al primo posto della scala sociale il rabbino e gli uomini più saggi, arrivando poi fino all’ultimo gradino occupato dallo scemo del villaggio.

Train de vie (1998).

Train de vie – La trama

La storia inizia e si conclude proprio con il personaggio del matto; di Shlomo che, avvertiti i compaesani del pericolo, li convince a fuggire e nella maniera più folle possibile.

Con i nazisti che stanno per arrivare, i rabbini si riuniscono per decidere cosa sia meglio fare. Alcuni, troppo ingenui, pensano di cavarsela con la gentilezza, altri già gettano le armi per una resa senza condizioni. L’aiuto arriva proprio da Shlomo la cui idea è tanto inverosimile quanto possibile. Con le loro risorse e i loro mezzi dovranno costruire un treno spacciandolo per tedesco, e con l’aiuto di qualche compaesano travestito da nazista, attraversare il confine e fuggire in Russia. Da lì raggiungere la Palestina.

Secondo la tradizione, le visioni di uno Schnorrer come Shlomo, ovvero di un matto, devono prendersi sul serio. Ecco che tutto lo shtetl si mette al lavoro e nel giro di poche settimane riescono a partire verso la salvezza. In questo lungo viaggio che per la prima volta li porta fuori dal villaggio, fanno nuove scoperte, incontrano nuovi popoli; riescono persino a illudere gli ufficiali tedeschi che incontrano lungo il cammino, arrivando finalmente al confine con l’Unione Sovietica.

Ma è proprio alla fine che la verità ci assale e il colpo di scena stravolge il destino dei nostri simpatici protagonisti. Tutti gli eventi raccontati sono il frutto dell’immaginazione di Shlomo, che nella scena finale vediamo dietro al filo spinato di un campo di concentramento e vestito con la tipica divisa a righe.

Volavano via i nostri compagni, volavano via appesi a una stella gialla, trascinati da un vento furioso. Avevano negli occhi il terrore. Volavano via gli uccelli, e non torneranno mai più. Si spegneva il sole e non comparivano più stelle. Solo nuvole nere, e il fuoco.

Shlomo (Lionel Abelanski)

Train de vie si conclude perciò nella maniera più tragica possibile, la stessa che milioni di persone hanno realmente avuto. Tuttavia la follia del protagonista permette trasformare l’intero racconto in una meravigliosa storia di amicizia, amore e fratellanza. Quella che vorremmo sempre sentir raccontare. Non mancano i momenti drammatici ma nel corso di questa avventura non mancano nemmeno scene divertenti.

Le tante opere che il cinema ha partorito sulla Shoah, seguono la linearità fredda e tagliente delle vere testimonianze. Tutto, come avviene in Schindler’s List o ne La vita è bella, tiene delle tappe precise e la storia che vediamo è un lento excursus storico che segue la lucida confessione dei sopravvissuti. Confessione che inizia con la dolcezza della famiglia e della giovinezza per poi arrivare alla catastrofe.

In Train de vie, invece, la storia narrata è quella di un matto, di uno che vive di fantasia. Grazie alla sua immaginazione riesce a varcare quel filo spinato, sognando la vita, la salvezza e la terra promessa. Qui sta il vero dramma e il geniale escamotage del film di Mihăileanu; illuderci ma allo stesso tempo dando la possibilità di usare la fantasia per scappare dalla verità che, alla fine, viene sempre a galla.

La storia si divide in dueparti . La prima, in cui entriamo in contatto con la vita degli ebrei ortodossi dello shtetl (su tale tema è obbligatorio guardare Il violinista sul tetto). La seconda parte ha invece luogo sul treno che taglia in due l’Europa (e nella testa di Shlomo). Le soste che fa il lungo convoglio ferroviario ci permettono di conoscere meglio i protagonisti e anche di fare la conoscenza di altri personaggi, come la grande famiglia di zingari anch’essi in fuga dal furore nazista. A questo proposito è doveroso citare la sfida musicale fra il violinista ebreo e quello zingaro.

Con Lionel Abelanski e Rufus, Train de vie non riuscì ad aggiudicarsi nessun premio. Alla sua uscita non ottenne il consenso del pubblico o della critica, che oggi, al contrario, lo riscopre e lo declama come uno dei film più belli mai realizzati sulla Shoah.

Una scena di Train de vie.

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