I’m thinking of ending things (in italiano Sto pensando di finirla qui) è un film del 2020 diretto e scritto da Charlie Kaufman, uno degli sceneggiatori più brillanti della nostra epoca. La fotografia è curata da Łukasz Żal, diventato celebre grazie alle memorabili collaborazioni con il regista polacco Pawlikowski (Ida e Cold War).
La trama di I’m thinking of ending things
I protagonisti sono due ragazzi che si frequentano da poche settimane: Jake (Jesse Plemons) e Lucy (Jessie Buckley, continueremo a chiamarla Lucy per convenienza, ma il suo nome cambia continuamente nel film). Jake porta Lucy a conoscere i suoi genitori, ignorando che lei cova di suicidarsi. Una buona parte della pellicola mostra i loro dialoghi e non-dialoghi in macchina. Sopraggiunge l’incontro con la famiglia. Se questo è inizialmente strano ma accettabile, con il tempo si trasforma in un susseguirsi di scene deliranti: a titolo d’esempio troviamo i genitori di Jake invecchiare e ringiovanire tra una sequenza e l’altra. In mezzo a questa storia, di tanto in tanto, fa la sua comparsa un bidello di scuola mentre compie comunissimi gesti di routine.
Analisi
I’m thinking of ending things racconta una storia intricata, che sembra deviare dal binario del comprensibile già a un quarto della sua durata. Si sarebbe tentati di dire che l’opera prenda una piega lynchiana – godendoci tutta la rugginosa ironia di cui ormai è carico questo aggettivo.
Bisognerebbe – si dice – prima aver letto il libro da cui è tratta la sceneggiatura e in seguito, dopo diverse visioni del film fatte concentrandosi sui minimi dettagli che la scenografia offre, o sui costumi, si potrà finalmente venire a capo del significato dell’opera. Quante volte si sono sentite frasi del genere, accompagnate da generici e arrendevoli apprezzamenti o critiche. Ebbene, la verità è che ognuno può fare come gli pare – dico bene? A maggior ragione se guidato da una sincera passione per la comprensione globale di un’opera. Tuttavia, personalmente, ritengo che i film non siano cruciverba da risolvere, magari anche aiutandosi con le soluzioni.
Ad ogni modo, risentimenti a parte, resta di certo condivisibile l’opinione che I’m thinking of ending things sia un’opera complessa. E i seguenti pensieri, che di certo mancheranno in pieno la completezza di un’analisi puntuale, vogliono avere come unico obiettivo quello di portare alla luce l’esperienza che il cuore dello spettatore attento fa nel vedere la pellicola.
Partiamo dunque mettendo una verità in evidenza: il vero protagonista di I’m thinking of ending things altri non è che il bidello; quel solitario “fantasma” che inframezza le lunghe chiacchierate fra Jake e Lucy, e che nel finale assume un ruolo sempre più marcato. Ma il bidello nello stesso tempo è personificato da due personaggi immaginari: Lucy, con il suo desiderio di farla finita; ma soprattutto Jake, un Jake ormai invecchiato, che tra una lavata e l’altra dei pavimenti di scuola ricorda e deforma il suo passato. Un passato che è davvero duro da richiamare alla memoria, con tutti i fallimenti che uno scienziato fallito ha dovuto patire; con la sua passione per i musical ormai rinchiusa a chiave nei polverosi cassetti della vita privata.
Ciò giustifica quel bizzarro finale in cui l’anziano bidello esce nudo dalla macchina e fa ritorno a scuola seguendo le orme del maiale; impara tra i corridoi tutto ciò che di sbagliato apprendeva da ragazzino nelle aule e finalmente riesce a far pace con la sua essenza, consistente appunto nell’essere-maiale, in fondo un’essenza uguale per tutti (e per tutte, non si faccia del maschilismo). Adesso Jake non teme più di sporcare con i piedi fangosi il corridoio tenuto pulito per tutta una vita. Non deve più lavar via lo “sporco”.
Nella sequenza successiva troviamo ancora il giovane Jake sul palco mentre tiene il discorso di ringraziamento dopo aver ricevuto un premio Nobel, presumibilmente per la fisica. La platea è gremita e si intravedono tra la folla tutti i personaggi: Lucy ovviamente, ma anche il padre con un’espressione fiera, le tre ragazze che lavoravano al Tulsey Town. Gli unici a non comparire tra questi sono: il bidello, a conferma che è proprio lui quello che sta tenendo il discorso sul palco; l’altro invece è sua madre, che finalmente in silenzio ascolta il figlio defilata, ma con lui sul palco, a sostenerlo senza più intervenire. Ma la fantasia finale che la mente di Jake partorisce diventa ancora più assurda – e sincera – nel momento in cui una scenografia teatrale gli copre le spalle e lui si esibisce come se fosse in un musical.
“La verità ti renderà libero. Ma solo quando avrà finito con te.” Sono parole tratte da Infinite Jest di David Foster Wallace, scrittore citato più volte nel film, da un lato richiamato per le sue celebri critiche all’industria dell’intrattenimento e in particolare alla televisione (vedere i film ormai “è una malattia sociale” sancisce Lucy), dall’altro per il suicidio del 2008.
Tornando al finale, sembra quasi di ritrovarci all’interno di uno dei più celebri capitoli dell’Ulisse di Joyce, quello conosciuto con il nome “Circe”. Qui il protagonista, l’indimenticabile Leopold Bloom, al termine di una giornata molto lunga si trova proiettato in un turbinio di terribili paure e realizzazioni di folli desideri reconditi, oscillanti tra il masochismo, un’omosessualità repressa, deliri di onnipotenza e via dicendo. A tal proposito Joyce non si limita ad accontentare il “fruitore-dell’-opera” legando gli avvenimenti a quello che il lettore già dovrebbe conoscere e in una certa misura aspettarsi, ma svela senza nessun filtro (parola esclusa) l’intimità più autentica del protagonista, un’intimità così lontana dalla superficie che neanche mille pagine sono in grado di racchiudere e che perciò implode nel finale.
Kaufman prende una via leggermente diversa, risulta più “comprensibile”. Tutta la scena finale si svolge su un palco – diversamente che in Joyce, dove l’ambientazione si trasforma al variare delle volizioni di Bloom – ma il risultato generale resta pressoché identico: il protagonista fa i conti con sé stesso e si accetta, accetta la sua meschinità, la sua mera volontà di potenza (intesa in senso adleriano più che nicciano).
Inoltre il legame tracciato tra Joyce e Kaufman ricorre fin dalle prime scene della pellicola. È risaputa da tutti la geniale tecnica dello scrittore irlandese, il cosiddetto “flusso di coscienza“, grazie al quale il personaggio impossessato da questa forma detta una porzione fondamentale della sua vera coscienza, pagando l’equo prezzo di qualche punteggiatura mancante. Nella prima parte del film ci troviamo periodicamente presso il flusso di pensieri che attraversano la mente caotica di lei. Anche qui c’è un tentativo – che sia voluto o meno, poco importa: è una decisione presa dall’inarrestabile sviluppo storico dell’arte – di trasporre Joyce nel cinema, la cui opera è una delle lezioni migliori che la macchina da presa può apprendere dalla scrittura.
Eppure un lettore sufficientemente critico potrebbe starsi chiedendo: “che bisogno c’è di scomodare Joyce? Va bene un accenno, ma parliamo del film! Si cita Joyce per il gusto di farlo, forse solo per dimostrare agli altri che si è letto l’Ulisse.” Caro lettore inesistente: hai quasi perfettamente ragione. La verità è che i miei pensieri cascano facilmente nel circolo vizioso della citazione, del parlare di qualcosa parlando d’altro, cioè del parlare del niente. Questo è il paradigma e la vanità dell’arte contemporanea. E Kaufman lo sa. Non solo: lui ne parla e schernisce la banalità del nostro secolo, ma senza farcire di autocompiacimenti la sua sceneggiatura.
Così assistiamo alla cruciale sequenza in cui Lucy scende nella tenebrosa cantina e ritrova i suoi quadri. Ma non sono suoi, sono del pittore americano Blakelock. Poi riflette: “Non c’è niente di più raro in un uomo che un atto di propria volontà.” Ma il pensiero è una citazione del filosofo Emerson. Capite dove si vuole arrivare? E continua: “La maggior parte delle persone sono altre persone. La loro vita un’imitazione, la loro passione una citazione. L’ha scritto Wilde.” … Qua continuo “io”, chiamando all’appello Ennio Flaiano: “I giovani hanno quasi tutti il coraggio delle opinioni altrui.” Manca giusto una citazione di qualche filosofo greco per poter concludere in pace la fiera delle maiuscole autorevoli.
Tuttavia Kaufman non si arresta nell’atto di evidenziare tali ipocrisie, bensì costruisce un discorso a partire dalla nostra povertà intellettuale. Fa ciò nell’ennesimo magistrale dialogo in macchina tra Jake e Lucy (per inciso: loro sono in viaggio, ma si ha l’impressione che siano fermi).
Stanno parlando del film di Cassavetes Una moglie e mentre Jake lo loda, lei ne mette in luce la banalità, rafforzando le sue tesi con un lessico forbito e competente. Ma qui Jake, seppur meno ferrato in materia cinematografica, balbettando le dice che quel film mostrava la cosa che più si è smarrita, ovvero la compassione e la bontà. Lei è imbarazzata e intuisce che Jake ha perfettamente ragione, ma nella fretta di replicare risponde a casaccio: “La società è alienante.” adoperando un termine che ha ormai smarrito ogni presa con la realtà, che è distante anche dalla sua sorgente marxista. Perciò a ragione Jake continua: “E’ tutto una bugia…” !
Così, tra l’incommensurabile egotismo di ognuno (vedi la scena conclusiva) e l’incessante bisogno della chiamata alla bontà, tra questi opposti oscilliamo noi e i protagonisti di I’m thinking of ending things. Ma se il primo estremo ci ammalia, è però il secondo a interessare di più sia noi spettatori che il regista. Ancora meglio: esiste un orizzonte in cui tutti gli opposti si incontrano e in questo caso l’orizzonte è l’egoismo che ha personalmente bisogno della bontà. In questo modo un anonimo bidello può lasciarci la sua lezione, la verità che lo ha reso libero, insegnandoci che tante essenze uniche e sofferenze inaspettate si nascondono sotto ad altrettante superfici. E’ allora il caso di scomodare Platone, quel vecchio filosofo greco (sic!), e dire con lui:
“Sii gentile con tutti, ogni persona che incontri sta combattendo una dura battaglia.”
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