Il noto scrittore italo-americano Jean-Paul Malfatti ha detto: “I pregiudizi ed i preconcetti sono figli dell’ignoranza e nipoti della stupidità. Sono mostri che crescono e si ingigantiscono nella mente degli individui predisposti a queste malattie incurabili e difficilmente guaribili.” Queste parole risultano essere fortemente correlate con il significato de L’uomo nero, film del 2009 diretto da Sergio Rubini che vede come protagonisti, insieme a quest’ultimo, Valeria Golino, Riccardo Scamarcio, Fabrizio Gifuni e il piccolo Guido Giaquinto.
Il regista de La stazione e La terra, al suo decimo lungometraggio, racconta le vicissitudini della famiglia Rossetti, composta dal capofamiglia Ernesto (Rubini), un capostazione con velleità artistiche, dalla moglie Franca (Golino), dal figlio Gabriele (Giaquinto) e da Pinuccio (Scamarcio), il fratello di Franca.
Ernesto ha sempre avuto un talento naturale per la pittura e, pur svolgendo un lavoro del tutto differente, non l’ha mai abbandonata del tutto. Questa vocazione è un’arma a doppio taglio per Ernesto in quanto, pur amando dipingere, si sente spesso frustrato a causa del fatto che da parte dei suoi compaesani non gli venga mai riconosciuto il giusto merito.
Ernesto è l’emblema stesso dell’artista fallito, ovvero quell’individuo che deve soffocare la sua vera natura a causa del fatto che nel corso degli anni non è riuscito ad esprimersi come avrebbe voluto. Pertinente a tal proposito risulta essere il seguente aforisma dell’indimenticato scrittore statunitense Mark Twain: “Migliaia di uomini di genio vivono e muoiono senza essere scoperti: o da se stessi o dagli altri.”
Gabriele, essendo un bambino, non riesce a comprendere il continuo malumore del padre e lo considera cattivo. Quando da grande si ritroverà al suo capezzale però Gabriele, che nel frattempo ha preso le sembianze di Gifuni, comprenderà la sofferenza che il genitore ha patito durante la sua esistenza a causa del pregiudizio che albergava negli abitanti del paese meridionale in cui vivevano. Non gli perdonavano il fatto di non aver studiato, di conseguenza gli istruiti che si occupavano della critica lo snobbavano sistematicamente e non perdevano l’occasione di denigrarlo.
Sergio Rubini ne L’uomo nero mette alla berlina quella critica faziosa e arcaica, impersonificata per l’occasione dagli attori Maurizio Micheli e Vito Signorile, che tende ad etichettare in maniera grossolana ed ingiusta artisti che meriterebbero ben altra considerazione.
Impreziosito dalla bellissima colonna sonora del maestro Nicola Piovani, L’uomo nero è un film che funziona anche perché include al suo interno sequenze oniriche dal sapore felliniano che ricordano allo spettatore l’importanza incontrovertibile dell’arte nelle nostre esistenze. D’altronde, per citare il regista premio Oscar Giuseppe Tornatore: “L’arte e la cultura rimandano ad un concetto di bellezza che serve a fornire all’uomo strumenti migliori per la convivenza sociale e civile.”
Coadiuvato in fase di sceneggiatura da Domenico Starnone e Carla Cavalluzzi, Sergio Rubini realizza un capolavoro che non dimenticherete tanto facilmente, anche per merito di un colpo di scena finale veramente notevole. L’uomo nero ricorda allo spettatore che nell’arte così come nella vita spesso le cose non sono come ci appaiono.
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