La stanza del figlio (2001)

La stanza del figlio – Si può sopravvivere al dolore?

Nono film che vede Nanni Moretti regista e vincitore della Palma D’oro alla 54° edizione del Festival di Cannes, La stanza del figlio è uno dei lavori più drammatici del regista romano, un’opera priva della tipica autoironia presente nelle sue precedenti pellicole ma pregna di quel carattere intimistico che da sempre è uno dei punti forti della sua filmografia. In occasione della uscita del suo prossimo film Tre piani, riscopriamo il capolavoro che lo ha premiato con il Nastro d’argento come regista ed il David di Donatello come Miglior film.

La stanza del figlio – Convivere con il dolore per superarlo

Giovanni Sermonti (Nanni Moretti) è un uomo che ha tutto: una carriera avviata come psichiatra, un matrimonio felice con Paola (Laura Morante) ed uno splendido rapporto con i figli Irene (Jasmine Trinca) ed Andrea (Giuseppe Sanfelice). Questa serenità è però destinata ad infrangersi in seguito alla morte accidentale di Andrea, evento chiave del film che porta il resto dei protagonisti a fare i conti con un dolore talmente forte da essere capace di distruggere non solo loro stessi ma l’equilibrio della famiglia.

Prima di entrare nel vivo della narrazione con la morte di Andrea, Nanni Moretti immerge lo spettatore nella routine di una qualunque famiglia italiana medio borghese favorendo in questo modo l’immedesimazione dello spettatore con i personaggi. È proprio questo uno dei principali punti di forza del film: man mano che la pellicola prosegue ed i personaggi affrontano il proprio dolore non si ha l’impressione di assistere ad un storia basata sulla finzione bensì su eventi reali. Non c’è la spettacolarizzazione del dolore, vi è poco spazio per le urla straziate della madre o per il dolore rabbioso del padre. Ciò che viene messo in risalto nella narrazione è il senso di vuoto e di straniamento che un evento simile lascia in chi affronta questo dolore.

Se nel primo quarto del film tutti i personaggi vengono mostrati impegnati nelle loro attività quotidiane, assorbiti nel tran tran delle loro vite, successivamente all’incidente Giovanni e la sua famiglia si mostrano segnati dalla sofferenza e dalla rassegnazione. Un dolore che lascia annichiliti, incapaci di reagire e di andare avanti, talmente forte da divenire una presenza costante nella maggioranza delle scene. Ed è proprio questo quello che si concretizza con l’epilogo del film: dopo aver fatto la conoscenza con quella che sarebbe potuta divenire la fidanzata di Andrea ed averla accompagnata per un breve tratto del suo viaggio, Giovanni e la sua famiglia si ritrovano su di una spiaggia in una limpida giornata di sole. La scena finale sembra quindi concedere un principio di serenità ai protagonisti, una serenità che però è possibile solo tramite l’accettazione del dolore e dell’assenza di chi ormai non c’è più.

Ma non sono solo i componenti della famiglia Sermonti a dover affrontare il dolore ed accettarlo, con loro ci sono anche i pazienti di Giovanni, persone diverse fra loro e con diversi approcci alla sofferenza che arricchiscono il film donandogli più sfaccettature. È il caso di uno strepitoso Stefano Accorsi che interpreta Tommaso, oppure di Silvio Orlando che nel ruolo di Oscar affronta temi quali il suicidio e la lotta al cancro.

Tutti i pazienti divengono quindi un mezzo del regista per parlare allo spettatore, a volte per anticipare ciò che vedremo più avanti: come quando Giovanni analizza un paziente (Stefano Abbati) spingendolo a riflettere su come “non tutto nella vita può essere determinato da noi. Noi facciamo quello che possiamo“, parole che calzano a pennello per la crisi che dovrà affrontare il protagonista da lì a poco, convinto che se invece di dedicarsi al suo lavoro avesse passato la giornata con il figlio (come avevano concordato) quest’ultimo non sarebbe morto.

Questo elemento sarà esplicitato più volte nel corso della narrazione, insieme ad altri scelte registiche realizzate con l’intento di mostrare come reagisce l’essere umano ad un dolore simile una volta superato il trauma iniziale: iconica è la sequenza in cui tornati a casa dopo la chiusura della bara Giovanni continua a sentire il rumore dei chiodi che si conficcano nel legno. Queste sequenze, insieme ai vari simbolismi che troviamo nel corso della narrazione (il rito indù per celebrare la vita ad inizio film, la disposizione con cui la famiglia Sermonti occupa i posti a tavola) rendono questo film un’opera che va oltre la semplice rappresentazione del dramma, ma bensì come spiegazione di queste dinamiche.

La stanza del figlio è un’opera che nonostante sia diversa dai precedenti lavori del regista resta perfettamente in linea con il personaggio che Nanni Moretti ha sempre mostrato sullo schermo, proseguimento diretto delle vicende di quello “splendido quarantenne” che in Aprile si appresta a diventare padre, e anticipatore di quello stesso dolore che vedremo in Mia Madre (2015).

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