Daliland – Salvador Dalì sul viale del tramonto

Salvador Dalì è stato indubbiamente uno degli artisti più significativi di tutti i tempi. Un talento multiforme il suo, che gli ha permesso di spaziare tra il cinema, la scultura e la fotografia. Questo eclettico pittore spagnolo è stato uno dei maggiori esponenti del surrealismo. Mary Harron, regista di film come American Psycho e Charlie Says, decide di raccontare in Daliland la parte finale della sua vita e del suo percorso artistico.

Siamo nella New York del 1974, anno in cui Dalì, interpretato da Ben Kingsley, allestisce la sua prima mostra nella capitale americana. Il giovane James Linton (Christopher Briney) lavora proprio per la galleria d’arte che ospista la prestigiosa e attesa esposizione. Il ragazzo incontra così per caso la celebre moglie nonché musa di Dalì. La donna rimane colpita dalla bellezza angelica di Linton a tal punto da introdurlo nel mondo daliniano, fatto di trasgressioni, vizi ed eccentricità.

L’attore premio Oscar Ben Kingsley diventa Dalì, offrendo una performance da applausi che riesce a condensare il genio e la sregolatezza del maestro del futurismo. Il pluripremiato interprete inglese incarna magistralmente un artista che, arrivato alle battute finali della sua vita personale e artistica, si ritrova a dover fronteggiare i propri demoni.

Mary Harron realizza un biopic godibile che non mitizza il suo protagonista ma al contrario lo umanizza. In Daliland vediamo un Salvador Dalì vittima delle sue nevrosi e delle proprie ossessioni. Non era facile riuscire a narrare per immagini uno spaccato di vita di un individuo che ha fatto dell’astrazione la sua cifra stilistica. La pellicola in questione poteva essere più onirica e in alcuni momenti appare fin troppo didascalica; inoltre avrebbe giovato qualche volo pindarico. In certi momenti Daliland si regge interamente sulle spalle di Kingsley che però, come già detto in precedenza, dimostra di averle belle larghe.

Anche Barbara Sukowa nei panni della consorte di Dalì comunque se la cava egregiamente; Gala è una vera e propria ancora di salvezza per il pittore, il quale senza di lei si sente smarrito. Christopher Briney invece non risulta sufficientemente credibile nel ruolo di questo ragazzo ambizioso e totalmente dedito all’arte daliniana.

Daliland è il classico lungometraggio da far vedere nelle scuole che si fa seguire con interesse, ma non entusiasma. Sembra quasi che la Harron non abbia avuto il coraggio di cui avrebbe necessitato un’opera incentrata su un personaggio di tale caratura.

Nel film è spiegato in maniera esaustiva il processo creativo di Dalì e viene posto il focus sulle feste orgiastiche che era solito organizzare, sul suo voyeurismo e soprattutto sulla sua stravaganza. I molteplici primi piani enfatizzano tutto ciò.
Pertinente col significato più recondito della pellicola in questione risulta il seguente aforisma della rinomata scrittrice statunitense Anaïs Nin: “Tutto nasce sempre da un eccesso: la grande arte è nata da grandi terrori, grandi solitudini, grandi inibizioni, instabilità, e ogni volta le ha sapute equilibrare.”

Considerando gli aspetti positivi e negativi mi sento comunque di consigliare la visione dell’ultima fatica di Mary Harron. Scoprirete che, come lui stesso asserì, non era facile essere Salvador Dalì.

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