Padmaavat, film epico-storico indiano, diretto da Saniay Leela Bhansali e uscito nelle sale nel 2018, si ispira e prende il nome dal poema epico Padmavāt, composto intorno al 1540 dal poeta sufi Malik Muhammad Jayasi. Siamo nel XIV secolo e a comparire sulla scena è Rani Padmini, leggendaria regina indiana, più simile ad una dea che ad una mortale, capace di incantare chiunque con la propria bellezza e saggezza.
La storia viene articolata seguendo due direttrici sviluppate in parallelo: da un lato vediamo l’ambizioso generale Alauddin sposare sua cugina Mehrunisa ed uccidere il proprio zio, così da diventare il nuovo sultano di Delhi; nel frattempo, Rani Padmini, per errore, ferisce con una freccia il re di Mewar, Ratan Singh durante una battuta di caccia, il quale si era recato nel regno di Singhal alla ricerca di preziose perle da portare in dono alla prima moglie. Tra i due è amore a prima e decidono di convolare a nozze.
Le due vicende sembrano apparentemente indipendenti, fino a quando Raghav Chetan, sacerdote di Ratan Singh, dopo essere stato cacciato dalla corte per aver spiato i novelli sposi in un momento di intimità, cerca rifugio preso Alauddin, convincendolo che l’unico modo per ottenere tutto il potere che brama, è quello di vedere almeno una volta la regina Padmini. Il generale, ammaliato dai racconti circa l’incredibile bellezza della regina, muove guerra contro la città di Chittor, dimora della regina Padmini e del marito.
Il film prosegue con scontri, peripezie, notevoli colpi di scena e piani ingegnosi portati avanti dalla regina stessa, che dimostra di essere sì incredibilmente bella, ma anche estremamente arguta e previdente.
La storia, pur non concludendosi nel modo sperato, ha comunque una sorta di “lieto fine”. Durante il combattimento finale, le donne della città si radunano in assemblea, consapevoli del fatto che, qualora i loro mariti e soldati venissero sconfitti, saranno fatte prigioniere e perderanno la libertà e l’onore. La regina in persona avanza la proposta più spaventosa di tutte, riferendosi all’unica arma posseduta dalle donne durante la battaglia: togliere agli invasori quello che sono venuti a prendere.
Nel silenzio arriva la terribile notizia: il re è morto, la città è caduta. Inizia così una sequenza di scene quasi surreale, magica, sacra, una lunga processione di spose, servitrici, figlie e madri che, indossati gli abiti migliori, si dirigono verso il centro del palazzo, seguendo come discepoli Rani Padmini, che a testa alta guida la schiera di guerriere senza spade. C’è un grande fuoco, le cui fiamme arrivano fino al cielo, così in alto da attirare l’attenzione del generale Alauddin, che in preda al terrore realizza di stare per fallire nella sua missione, il suo sogno. In una frenetica corsa contro il tempo, lo vediamo affannarsi fino alle pesanti porte della zona sacra del palazzo che, inesorabilmente, gli vengono chiuse in faccia, mentre la regina, di spalle, in un turbinio di lunghi capelli neri, scompare tra il fuoco purificatore e salvifico.
Sembra una storia lontana nel tempo e nello spazio, una storia di donne convinte che un simile sacrifico possa proteggere la loro virtù, il loro onore, che solo il calore delle fiamme possa renderle pure e degne di ricongiungersi nell’aldilà con lo sposo adorato; ma è più reale, vicina e recente di quanto si possa pensare. Tale rituale, Jauhar, è una variante della più conosciuta pratica Suttee: vengono erette delle pire funerarie per il corpo del marito, e ci si aspetta che la vedova si getti nel fuoco spontaneamente, dopo aver seguito accuratamente un rituale specifico. Banalmente, la differenza tra le due è questa: durante la pratica del Sati viene coinvolta una sola donna, mentre nel caso del Jauhar, si ha un’intera comunità che si sacrifica all’unisono, ponendo, di fatto, fine alla città stessa.
A seguito della colonizzazione dell’India da parte dell’Inghilterra, tali pratiche vennero ridotte drasticamente, rimanendo un fenomeno piuttosto raro e tipico dei villaggi lontani dalle grandi città, difficilmente raggiungibili ed esclusi dalla nuova rete di comunicazione. Eppure, nonostante le numerose campagne di sensibilizzazione per i diritti umani e delle donne nello specifico, si hanno notizie e testimonianze di cerimoniali avvenuti in tempi relativamente recenti: nel 1997 è stato riportato il caso di una vedova che ha cercato di gettarsi sulla pira del defunto marito, la quale, però, è stata fermata dalla polizia.
La parte forse più interessante di tali pratiche è che, essendo legate alla sfera religiosa del sacrificio, come condizione prima hanno quella della scelta volontaria: se non è la donna a prendere spontaneamente tale decisione, allora tutto il rituale è inutile. Inoltre, le regole sono molto precise e ferree, come dimostra il fatto che sia necessario aver superato una certa età per poter partecipare, oppure il fatto che la donna debba seguire una lunga serie di passaggi prima di arrivare al sacrifico finale, in modo da avere il tempo di riflettere e di capire se davvero sia la cosa giusta per lei.
Nella pratica, però, non è stato così: numerosi sono i casi riportati di violenza e costrizione, di bambine brutalmente sacrificate per meri fini economici, per squallide remunerazioni, una sorta di risarcimento alle famiglie per aver cresciuto “una così fedele discepola”.
Padmaavat, di per sé, non si pone come una denuncia della pratica, pur aprendosi con una dichiarazione che nega il sostegno al rituale Sati/Jauhar. Diremmo quasi che lo esalta in qualche modo, arrivando addirittura a romanticizzare la scena finale, investendola di un forte potere sacrale, mistico, in un’atmosfera sospesa nel tempo, un recinto inviolabile, protetto e sicuro. Lo sguardo sereno e rilassato della regina sembra esprimere una sorta sollievo per le preoccupazioni finalmente scomparse, e il sorriso che la accompagna nella sua ultima discesa è talmente dolce e sicuro che può essere rivolto ad una persona soltanto, lo sposo che la attende.
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