L’integrato – Erika

di Lorenzo Borzuola

[segue]

Erika. Credo di averla vista in quella casa dieci o venti volte, ma con lei non ero mai andato. Arrivavo sempre e solo dopo mezzanotte. Pagavo subito la vecchia portiera e lei mi elencava tutte quelle che in quel momento erano libere per un altro cliente. Salendo le scale la vedevo sempre lì che mi guardava. I suoi occhi grandi e i capelli neri m’infervoravano ogni volta che i nostri sguardi s’incrociavano e il mio cadeva, poi, più in basso scendendo giù per i suoi fianchi e le sue giovani curve. Non so perché non scelsi mai lei, eppure sembrava essere sempre libera, disponibile. Nemmeno la vecchia mi disse mai nulla sul suo conto ed io non domandavo. Tra tutte quelle ragazze, non ebbi mai il coraggio di sceglierla.

Erano le quattro e trenta. Marco mi aveva scritto pochi minuti prima, ma io non gli avevo risposto. Voleva sapere se poteva parlarmi. E di cosa? avevo subito pensato, riportando subito Marco come l’ultimo problema di quella giornata.

-Ti sei deciso ad entrare nella mia stanza alla fine!- disse Erika facendomi gentilmente accomodare in quella che dovrebbe essere stata la sua camera da letto; dove dormiva e riceveva. A quell’affermazione, non seppi cosa rispondere, limitandomi a entrare e a guardare l’ambiente.

-Siediti- fece lei raccattando dal letto alcuni vestiti e libri. Uno di questi cadde proprio vicino ai miei piedi.

-Vuoi bere qualcosa?-

Non le risposi ma raccolsi da terra il libro. La copertina era bianca e blu, un po’ consumata, e così anche le pagine.

-La vita di sabbia- lessi ad alta voce –Vedo che ti piace leggere. Soprattutto Mushowsky a quanto pare!-

-è una delle poche cose che riescono a distrarmi da tutto questo- Mi guardò sorridendo e provai a fare lo stesso anch’io, solo più rigido e inverosimilmente ostentato.

-A te non piace leggere?

-Bè. Non ho mai molto tempo per farlo. A dire la verità saranno anni che non tocco un libro. Non è una cosa che mi da piacere

-E cos’è che ti piace fare?- domandò accostandosi sempre più vicino. Sentì un brivido sgusciare fuori e drizzarmi i peli delle braccia. Un leggero dolore nelle mie zone più private si trasformò in estasi quando Erika iniziò a muovere la sua lingua sul mio collo e delicatamente sopra le mie labbra. Immobile com’ero, i brividi sottili che poco prima avevo captato lungo la schiena e le braccia, irruppero lungo tutta la mia viva pelle che ricopriva l’apparato. Sinuosi epiacevoli, potevo sentirli fin sopra le radici dei miei capelli, e giù, fino ai piedi mentre la ragazza iniziava a strofinare la mano candida e curata sopra le mie cosce e il pube. Dovevo decidermi a far qualcosa anch’io. In questo gioco o si fa un po’ per uno o niente, ma il ricordo di quella giornata mi balenava ancora in testa. Erika scese lentamente con tutto il corpo sbottonandomi camicia e calzoni e prima che potessi fermarla, morbide e calde le sue labbra coccolavano l’intero mio corpo, ogni superfice di esso ed io mi adagiai sopra la sedia foderata come un bambino. I pensieri svanivano e la voglia di giacere con lei in quel piccolo letto si tramutava in realtà quando mi decisi a baciarla affondando i denti contro le labbra e le mani dentro i suoi capelli.

Ci spogliammo. Lei lo fece con nobile calma accostandosi al comodino, ma non si poteva dire lo stesso di me che in meno di un minuto ero a mio agio, nudo e disteso sopra il materasso, attendendola e bramandola da lontano.

I nostri corpi si sfioravano, si scontravano l’uno contro l’altro in un vortice di arti e capelli e quella voglia cresceva inarrestabile; non trovò pace fino a quando decisi che era giunto il momento di possederla, lì e subito. Lo volevamo entrambi, e anche se per lei poteva essere solo una questione di soldi, io compresi il suo interesse e non mi diede fastidio il pensiero. Per me era una questione di sopravvivenza e meritato riposo dopo ore come quelle che avevo appena passato. Un’istante più tardi ansimavamo entrambi muovendoci sopra quel letto, liberi e colti dalla passione. All’improvviso, mentre Erika si attaccava a me, contraendosi indietro con la schiena e con la testa, mi accorsi che la mia erezione, proprio nel momento in cui c’era più bisogno, si spense ed io caddi con la testa sopra il cuscino senza più fiato né forza.

-Cos’hai?- chiese lei accorgendosi quasi subito della situazione.

La guardai sudato –Mi dispiace. Non so cosa mi prende. Mi dispiace- mi alzai di corsa dal letto e come spaventato da qualcosa mi ritrassi in un angolo e in quel punto preciso le mie gambe non ressero e caddero sul pavimento come paralizzate; non avevano vita o forza a sufficienza per stare dritte. La ragazza si rivestì con una vestaglia che trovò vicino e corse in mio aiuto. Mi portò dell’acqua ma preferii non bere e restare seduto per terra.

-Vuoi che chiami qualcuno?

-No, no. Va tutto bene, tranquilla. Forse un po’ di stanchezza. Forse, forse è oggi che deve andare tutto storto

-Se hai bisogno di qualcosa dimmelo

-Si, ho bisogno di qualcosa- dissi trattenendo disperatamente le lacrime –ma non so di cosa ho bisogno.

Restò in silenzio a guardarmi. Capiva che ero turbato e seppe esattamente cosa dire, mettendosi seduta difronte a me. Mi diede un bicchiere d’acqua fredda. Bevvi e poi mi bagnai la faccia con la stessa acqua del bicchiere.

-Avanti, dì qualcosa! Non avere paura.

-Cosa vuoi che ti dica?

-Magari, di ciò che ti affligge. Della tua vita. Parlami un po’ di te.

-Scusa ma, mi sento un po’ in imbarazzo in questo momento. Non voglio farti perdere tempo.

-Se te l’ho chiesto, vuol dire che mi fa piacere stare ad ascoltarti. Sai, io ti ho visto molte volte venire qui. Con le altre ragazze. Mi sono sempre chiesta del perché non scegliessi mai me. Ti guardavo salire le scale come fanno tutti quelli che vengono. Sono tutti uguali. Guardandoti, capivo che in te c’era qualcosa di diverso. Sapevo che non eri tedesco, ma niente di più.

-Ed ecco anche la mia integrità svanire definitivamente- dissi ad alta voce come uno appena sconfitto.

-Cosa? Quale integrità?

-È vero. Non sono tedesco, ma pensavo di potermici mascherare. Confondermi in mezzo a tutti gli altri senza rivelare mai nulla delle mie vere origini.

-Perché?

-Perché così avrei fatto parte di questa società. Sarei stato un uomo libero, onesto, lavoratore. E non un semplice emigrante italiano. Ce ne sono abbastanza di noi.

Erika rimase confusa. Dal suo sguardo intuii che non la pensava come me. Si alzò e inginocchiandosi vicino, mi accarezzò la faccia.

-Come ti chiami?- domandò con voce sommessa e leggera, gentile.

-Mi chiamo Carlo- dissi, mentre l’imbarazzo svaniva dalle mie parole e cominciavamo a parlare.

Parlammo quasi due ore, senza mai fermarci. Non ricordavo potesse essere così bello, parlare, scambiarsi idee e solo parole, frasi, senza fare nient’altro. Le raccontai la mia storia, lei mi parlò della sua vita. Io specificai il mio problema, i pensieri che dalla mattina non mi lasciavano in pace, della mia famiglia, di mio cugino Marco e di come fossi stato duro e maleducato con lui. Del rapporto con mia madre. Insomma ogni cosa che di più importante credevo di avere in quel momento. Mi lasciavo trasportare dalle sue parole non curante del tempo che passava. Ero stato bene, rasserenandomi, perché ogni cosa alla fine poteva risolversi. Non parlammo del mio essere integrato in quella città, non c’era motivo per parlarne. Sapevo, e così anche Erika, che in ogni caso avrei potuto cambiare il mio modo di vivere, di parlare, ma mai avrei potuto perdere il retaggio che da bambino mi era stato imposto. Nemmeno la lontananza dalla mia città, dalla famiglia avrebbe distrutto quel legame; era sicura in ciò che diceva, ci era già passata. Non lo sapevo ma anche Erika non era una vera tedesca e faceva di tutto per non esserlo al cento per cento. Preferiva ricordarsi dei suoi tempi passati, di quando era una ragazzina spensierata e di certo non immaginava un tale lavoro; ma non era insoddisfatta. Ogni volta che voleva, tornava alla sua terra e ai suoi ricordi. Mi disse che i soldi che accumulava con quel lavoro l’avrebbero aiutata un giorno a cambiare vita, a farsi una famiglia.

-Forse è questo che veramente ti manca, Carlo….

-Cosa?- chiesi io mentre m’infilavo le scarpe e mi ero rivestito.

-Una famiglia- disse, avvicinandosi alla finestra, intenta a guardare all’esterno di quella stanza –una donna con la quale passare le giornate. Con la quale parlare. Con la quale non sentirsi mai solo del tutto. Una cui puoi fare affidamento, e così anche lei…

Mi alzai da quella sedia risistemandomi la camicia. Guardai il suo corpo, poi la sua testa piena di capelli e dissi –E tu ne cerchi una? Di famiglia, intendo!

Ero sicuro del fatto che quella mia domanda avrebbe distolto la sua attenzione da quella finestra, posandosi un istante più tardi su di me. Mi sorrise fissandomi e scrutando il mio volto ancora, e ancora, per essere, forse, sicura che fossi stato un brav’uomo. Non lo sapevo neanch’io, se ero da buttar via o da amare, e pur di non sapere fino in fondo la verità non le chiesi altro. Quella conversazione stava lentamente per terminare e noi ci guardavamo impietriti, sorridenti e silenziosi.

All’improvviso, il cellulare, da dentro la mia tasca, suonò tre colpi, poi si fece muto. Lo presi e controllai chi mi avesse cercato.

-È Marco. Mio cugino- dissi a voce alta rivolgendomi con gli occhi verso la ragazza. Si allontanò dalla finestra e volle avvicinarsi ma si fermò pochi centimetri lontano da me. Mi sfiorò i capelli con una mano –Vai. Vai da lui, Carlo- mi sorrise. Io infilai il telefono in tasca e le presi la mano, solo per toccare un’altra volta la sua bianca pelle. Poi mi diressi verso la porta e i nostri sguardi ristettero sovrapposti, l’uno sull’altro, in un imperituro silenzio. Anche quando la porta fu chiusa e serrata completamente fu come se continuassi a guardare lei, scrutando oltre il legno nero. Me ne andai.

[continua]


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