Nascere in un piccolo paesino può essere una noia mortale. Quattro case, un piccolo bar, poche anime, più vecchie che giovani. Nascere in un piccolo paesino può sembrare una condanna all’ergastolo. Niente da fare, sempre le stesse facce,le stesse cose,nemmeno nell’ora d’aria si riesce a respirare. Nascere in un paesino piccolo in genere non porta mai a niente di buono o, perlomeno, straordinario.
Oppure.
Oppure, nascere in un paesino piccolo, senza troppi mezzi se non la propria fantasia, può essere uno stimolo per dare vita a grandi cose, se si ha abbastanza palle per farlo.
Ho conosciuto i Morningviews grazie ai Social ma in un modo del tutto non convenzionale. Ho incontrato prima Roberto, il cantante, immaginando fosse una persona artistica ma non sapendo realmente quando.
I Morningviews sono arrivati dopo, non ricordo nemmeno bene come.Ricordo la prima volta che li ho sentiti,il primo pezzo che ho ascoltato si chiama Dye, ma non ricordo altro.
Dove fossi, con chi fossi, cosa stessi facendo. Ma non è più importante.
Ciò che conta è la sensazione che mi ha lasciato, che mi ci vuole un niente anche adesso per riportarla a galla. Una sorta di straziante angoscia,tipica delle canzoni un po’ tristi e malinconiche, che fanno male all’anima, delle quali, anche se non si riesce a capire le parole del testo al semplice ascolto, poiché in inglese, ci si sente in qualche modo di appartenere;colti da qualche strano sentimento di nostalgia del passato, che torna in modo prepotente, accompagnato da lente note di chitarre e una voce profonda.
Una sensazione che a volte ho bisogno di ritrovare, chissà perché poi. E allora prendo le cuffiette e mi ascolto Dye.
Dye. Della quale conosco il testo anche se non lo comprendo a pieno, troppo criptico e personale, ma nel quale, semplicemente ascoltandolo, mi ci riesco a riconoscere, ritrovando un po’ di me e della mia storia.
Credo che sia questo un po’ il senso di universalità nella musica:riuscire a coinvolgere, anche quando non si riesce a capire.
Ciò che mi fa strano, è che i componenti dei Morningviews li conosco solo tramite una foto, a parte Roberto. Eppure mi sembra in qualche modo di conoscerli. Cinque ragazzi cresciuti nei piccoli, meravigliosi e desolati borghi umbri, che mettono anima e corpo in quello che fanno, creare musica, appunto. Nascono, crescono e lentamente maturano a Castiglione del Lago. Una formazione inizialmente sofferta, che ha visto venire e andare diversi componenti, che ha visto fondere e sperimentare diversi generi, prima di trovare la propria strada, fatta di un mix tra post- rock, post –hardcore, post- metal con influenze che spaziando dallo shoegaze , allo space rock, fino al prog. Lo so, detta così sembra una roba assurda e quasi aliena, anche la mia prima reazione è stata di assoluto stupore e stordimento, venendo da un mondo musicale vicino ma comunque diverso.
Ma tutte queste fusioni, tutti questi generi a primo impatto dai nomi strani, specie per gente poco ferrata sull’argomento,come me,hanno permesso loro di diventare loro stessi. Quindi un consiglio:se vi sentite un po’ spaventati, lasciate correre tutto, attaccate semplicemente la musica e lasciatevi trasportare. Tutta la confusione sparirà di fronte a questa sorta di inconvenzionale tripudio musicale, che non suona per niente minaccioso come i generi sopracitati;tutt’altro, è un cane che abbaia, anche forte, ma non morde.
Della formazione originale sopravvivono solo Roberto, chitarrista e Angelo, alla batteria. Subito dopo si unisce il secondo Roberto, voce e chitarra. Mirko,anche lui alla chitarra e il bassista Simone, arrivano qualche tempo dopo, andando a completare la formazione.

Così i Morningviews hanno silenziosamente, ma non troppo, iniziato a disturbarci piacevolmente con la loro musica, con il loro You are not the places you live in, primo, si spera, di una lunga serie di album.
Ricordo poi la seconda volta che l’ho ascoltati. Direzione aeroporto Roma Fiumicino, di partenza da casa per tornare a casa, ad Amburgo. Avevo l’umore a pezzi e la voglia d’ascoltare qualcosa che mi sarebbe potuto piacere, così, per risollevarmi un po’ il morale. Me ne stavo con la faccia incollata al finestrino a pensare che questi meravigliosi paesaggi nostrani in Germania me li posso solo sognare e lo pensavo, mentre vedevo scivolare sotto i miei occhi distese gialli e verdi di campi arati e borghi medievali arroccati. Quanta bellezza sa regalare la natura. Quanta bellezza si rivela tramite queste piccole opere d’arte. Fa quasi male per quanto è bello.
Lo pensavo anche mentre ascoltavo Eulogies in Guestbook. Ripetutamente. M’ha fatto uno strano effetto all’inizio,strideva un po’ con ciò al quale ero sempre stata abituata, uno strano odi et amo si agitava dentro di me, una sorta d’attrazione e repulsione legate insieme. Ora, invece,è una di quelle canzoni che non riesco a togliermi dalla testa. Non sono mai stata una grossa fan delle voci urlate e ci ho messo un po’ per apprezzarla. E’ un po’ come quando inizi ad innamorarti ma non riesci a convivere ed accettare qualche piccolo difetto, ma alla fine comunque ti innamori e te ne innamori interamente. Perdutamente.
La cosa che mi piace maggiormente di questa canzone è la versatilità del cantato. Un pezzo che si apre con una doppia voce, che solo tardivamente ho scoperto appartenere entrambe a Roberto, la qual cosa mi ha totalmente lasciata esterrefatta, poiché, a primo acchito, non si direbbe mai che esse appartengano alla stessa persona. Questa è una delle cose che ho apprezzato di più in Eulogies in Guestbook. Un parlato, profondo e tenebroso, sopra un cantato morbido e delicato, oserei dire dolce.
Sembra quasi un abbraccio.
On Uranus poi è un altro pezzo che spacca. Parte sparato, con un’intro che ricorda i Radiohead, poi lascia spazio, ancora una volta, al parlato e al cantato. La musica qui è preponderante e assolutamente coinvolgente. Sia qui, che in Eulogies in Guestbook,è possibile apprezzare la complessità musicale. I ritmi non sono mai scontati, distorsioni tipiche alla shoegaze sempre presenti, che danno quel tocco in più alla base musicale, sempre ricercata e mai banale, che conferisce quella sensazione di nuovo e fresco e non di un qualcosa di già sentito, scontato, stereotipato, sintomo di qualità e capacità della band che non scade mai nel ripetuto, evitando quindi l’effetto “ Questa canzone mi sembra già d’averla sentita”, nel quale molti gruppi ancora alle prime armi potrebbero cadere.
Originalità apprezzabile in tutte le canzoni del gruppo. La batteria e la chitarra, specie in On Uranus, scandiscono in modo conciso e ritmato l’andare della canzone. Bellissima la parte finale, che si libera in una voce a pieni polmoni, che permette di assaporare a pieno il cantato e di apprezzare le doti canore del cantante.
Needle in A Haystack si muove sulla stessa scia. Qui la presenza dell’impronte dei Radiohead è ancora più insistente ed evidente. Base e voce pompano in modo energico, filando liscio in cinque minuti come niente, come uno shot alcolico che brucia piacevolmente in gola.
Picking Daffodils è due minuti e cinquantatrè di musica con la ripetizione di una semplice frase:
“Don’t try hard, it will make you fall”.
Ok, diciamo che i ragazzi non sono in questo caso portatori di messaggi positivi o troppo enigmatici, ma il modo sommesso, allungato e ripetuto, è in grado di generare un loop mentale dal quale è difficile scappare.
Per cui, don’t try hard, it will make you fool. Entra semplicemente nel loop e lasciati cullare, dato che non è così facile liberarsi dei Morningviews, una volta che ci sei dentro. Ti trascineranno con loro, nei piccoli borghi dimenticati da Dio, tra i suoni delle chitarre e casette abbandonate, in mezzo ai loro nomi strani e improbabili, le loro distorsioni e melodie.
Quindi, passate per gli antichi paeselli umbri, abbiamo i Morningviews.
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