Con poesia si può alludere sempre a tante cose, specialmente quando questo concetto viene accostato al cinema. Con cinema poetico, o poesia nel cinema, non si intende solo quel messaggio di fondo, ricco di concretezza, di spiegazioni, che cerchiamo assiduamente alla fine di ogni film. Quando si dice “quel film è pura poesia”, bisogna sempre saper distinguere alcuni elementi fondamentali che convergono per forza di cose nella lavorazione cinematografica. Elementi che cooperano assieme o che si allontanano da loro, dando più importanza ad uno invece ad un altro.
Il cinema lavora e ha sempre lavorato su più fronti. C’è sempre stato, o quasi, un equilibrio tra regia, fotografia, recitazione e il messaggio di fondo che viene dato e che viene fatto dire dagli attori. Molte volte quello stesso messaggio poetico viene fatto dire da una scena o da più scene. Altre volte ancora, da una splendida fotografia o colonna sonora.
Perciò, per ricercare un elemento poetico, un velo di poesia all’interno di un film, bisogna innanzitutto capire che questi elementi lavorano sì assieme, ma che spesso, per volere del regista o dello sceneggiatore, essere sottolineati più o meno di altri.
Mi soffermerò solo su alcuni concetti, come quello della recitazione e della musica. Dal punto di vista recitativo, l’attore di cinema regala delle emozioni che sono messe in primo piano. Si può parlare di poesia pensando all’interpretazione di uno o più attori, sia dal punto di vista di linguaggio verbale o per quanto riguarda il linguaggio corporeo. Chaplin, Keaton, e moltissimi altri, hanno dovuto scegliere la mimica facciale e fisica per poter esprimere i propri ideali e le proprie concezioni sulla vita, sull’amore, sulla risata o sulla morte.
Può essere quindi considerata poesia cinematografica la prova attoriale di un singolo interprete o di tanti interpreti. Uno o più attori possono dare al film un valore che va dal punto di vista recitativo fino a quello emotivo, ritornando a quella poesia che il cinema riesce a trasmettere sotto vari punti di vista. Per fare un esempio concreto, si dice “attore in stato di grazia” quando la sua prova recitativa è così sublime, così forte ed energica che basta lui solo per emozionare e per fare di quel film un gran film.
Fra le tante pellicole che possono venire in mente, parlando di grande recitazione, uno fra tutti in cui è evidente la bravura e una certa dose di poesia attoriale è senza alcun dubbio Amici Miei. Considerato il capolavoro di Mario Monicelli, il film nasce da un’idea di Pietro Germi, il quale voleva ambientare il film a Bologna. Dopo la sua malattia e la sua morte, Monicelli prende in mano le redini del progetto e sposta l’ambientazione a Firenze. Questa prima trasformazione nella sceneggiatura già fornì le basi per una comicità molto più spigliata e comprensibile.

Tuttavia, nel primo Amici Miei e anche negli altri due capitoli che seguono, fondamentale è stato la scelta degli attori. In un primo momento fu chiamato Mastroianni per interpretare il Mascetti e Raimondo Vianello nel ruolo del Perozzi, il giornalista. Successivamente, e per fortuna, furono scelti cinque attori di diversa estrazione: Adolfo Celi lavorava nel teatro classico, Ugo Tognazzi veniva dal cabaret e da alcune commedie fatte assieme a Totò, Renzo Montagnani, che sostituisce Duilio Del Prete nel secondo film della trilogia, veniva dal teatro politico e impegnato. C’erano poi Philippe Noiret, francese e abituato ad un tipo di recitazione e comicità molto diversa, e infine Gastone Moschin, il quale spaziava continuamente da film drammatici alle commedie leggere.
Nonostante la sceneggiatura fosse già interessante di per sé, fu proprio questo connubio di cinque interpreti così diversi tra loro a fare di quel film un cult indimenticabile. In questo frangente, la recitazione conta più di ogni altra cosa. Monicelli, interessato più al contenuto che alla forma, da grande libertà agli attori e l’equilibrio e il rapporto che si era venuto a creare anche fuori dal set fece di Amici Miei un dramma grottesco in cui la recitazione è tutto. In cui la recitazione è pura poesia. Amici Miei è un capolavoro di battute e sketch indimenticabili scritto a dieci mani. Ogni scena è perfetta perché sostenuta da quel tipo di recitazione e da quel tipo di relazione lavorativa e umana instauratasi.
Amici Miei è poesia pura perché gli attori collaborano in grande sintonia tra loro, dando un messaggio di dramma sociale misto alla noia e al cinismo della mezza età. La società italiana post Boom economico è ora in balia di un’agiatezza che non si riesce a vedere se non nei vestiti, nelle macchine. Per il resto quel quintetto è stanco, stufo della monotonia coniugale e lavorativa. Schiva i problemi con le zingarate senza prendersi mai troppo sul serio. Amici Miei è la sintesi del popolo italiano, mai cresciuto veramente, che non ha mai preso vera coscienza del suo essere.
Per quanto riguarda la musica, questo è un altro elemento che non si può tralasciare. Anche questa, moltissime volte, prende il sopravvento e ogni sequenza, ogni primo piano, ogni scena è bella perché in sottofondo c’è una buona colonna sonora.
Registi come Leone, Tarantino o Kubrick, non possono dirigere un film se non c’è ad accompagnare la loro storia una appositamente scelta e creata per l’occasione. Per quanto riguarda Sergio Leone, uno dei suoi lavori più eccelsi e acclamati è sicuramente C’era una volta il West. Un film in cui, oltre alla bravura degli attori, forte è la potenza della musica di Ennio Morricone che in questo caso dona tutto se stesso per una buona riuscita.

Musicalmente parlando, C’era una volta il West è un’opera immortale soprattutto grazie a Morricone che, riprendendo anche i dettami della tragedia greca o del dramma lirico, affida ad ogni personaggio un motivetto ricorrente, un Leitmotiv (a questo proposito leggi qui), che scandisce la presenza di quel personaggio sulla scena.
Il film è considerato il canto del cigno del cinema western di Leone il quale, contrariamente alle sue pellicole precedenti e alle pellicole di registi come Ford e Houston, dà nelle mani di una donna (Claudia Cardinale), una prostituta, il compito di civilizzare l’ovest americano. Il tema scelto per lei da Morricone è caldo, con un respiro enorme che sa di antico. Dolce e lieve in alcuni punti e poi enfatizzato dagli archi.
Il personaggio di Armonica, interpretato da Charles Bronson, è invece, come suggerisce il suo stesso nome, accompagnato da una sonorità fredda, stridente e sorda che sa veramente di morte, citando anche il discorso di Cheyenne (Jason Robards), l’altro buono del film che invece agisce da bandito gentiluomo assieme ad una musica da saloon, che ricorda il primo west, quello naturalmente più selvaggio.
Poi c’è il personaggio di Frank (Henry Fonda). Un duro e spietato killer il cui tema non può che essere ricollegato alla paura. Anche in questo caso alla morte.
Questi sono naturalmente solo due dei tanti film e solo due dei tanti in cui la recitazione e la musica riescono prevalere con grande facilità.
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