“È difficile restare arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel mondo.” Questa frase, pronunciata dal protagonista nell’ultima sequenza del film, riassume il significato più recondito di American Beauty, lungometraggio diretto da Sam Mendes, che vede come protagonista Lester Burnham (Kevin Spacey), un uomo di mezza età appartenente al ceto medio.
Perennemente frustrato, e annoiato, da un’esistenza piatta e priva di stimoli, Lester ha una moglie nevrotica che non tollera più e una figlia di sedici anni, insicura e fragile. I Burnham, inoltre, hanno come vicini di casa una famiglia in cui è presente un colonnello pensionato rigido ed autoritario, sua moglie, che appare come una donna remissiva e apatica e il figlio Ricky, un ragazzo che non sopporta più le continue vessazioni subite dal padre.
Una sera i coniugi Burnham vanno ad assistere ad un’esibizione di cheerleader in cui partecipa la figlia; sarà in questo frangente che Lester vedrà per la prima volta una bellissima ragazza da cui rimarrà folgorato; da quel momento in poi la vita del protagonista cambierà radicalmente.
Il titolo del film corrisponde al nome di una varietà di rosa che spopolò negli Stati Uniti tra gli anni venti e trenta; la pianta in questione è una rosa rifiorente, con periodo di fioritura piuttosto lungo.
Lester, allo stesso modo di questa rinomata cultivar di rosa, rifiorisce dopo tanto tempo ricominciando finalmente a fare le cose che lo fanno stare bene; pertinente a tal proposito risulta essere il seguente aforisma di Roy T. Bennett: “Accetta te stesso, ama te stesso e continua ad andare avanti. Se vuoi volare, devi rinunciare a ciò che ti appesantisce.”
Il regista di Era mio padre e Skyfall realizza un vero e proprio capolavoro, che mette alla berlina il ceto medio americano comprendente individui insoddisfatti e mediocri che non guardano le cose dalla giusta prospettiva, perdendosi in questo modo la bellezza che ogni giorno domina il mondo; d’altronde come ha asserito l’indimenticato filosofo scozzese David Hume: “La bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le contempla ed ogni mente percepisce una diversa bellezza.”
Uscito nelle sale americane nel 1999 American Beauty è stato accolto positivamente sia dalla critica che dal pubblico; al botteghino incassò globalmente l’imponente cifra di 350 milioni di dollari e durante la Notte degli Oscar del 2000 l’opera in questione si portò a casa ben cinque statuette, rispettivamente per il Miglior Film, la Miglior Regia (Sam Mendes), il Miglior Attore Protagonista (Kevin Spacey), la Migliore Sceneggiatura Originale (Alan Ball) e la Miglior Fotografia (Conrad Hall).
Sam Mendes strizza l’occhio a vere e proprie pietre miliari del cinema statunitense come Re per una notte, Rosemary’s Baby e Viale del tramonto, tra i tanti, riuscendo mirabilmente a confezionare una commedia drammatica a tinte noir che sfocia financo nel grottesco.
Alcune sequenze di American Beauty sono rimaste nell’immaginario collettivo di milioni di persone: in primis la scena in cui un Lester sognante immagina l’amica di sua figlia immersa in una vasca di petali rossi; un sogno catartico che permetterà a Lester di riprendere in mano la propria vita. Un’altra scena molto significativa di questo autentico cult della settima arte è quella della busta di plastica che simboleggia il fatto che c’è vita dietro ogni singola cosa.
Liberamente ispirato a Lolita, il celebre romanzo di Vladimir Nabokov da cui prese spunto anche l’indimenticato Stanley Kubrick, American Beauty si prefissa di comunicare allo spettatore che non dobbiamo temere la bellezza, bensì andarle gioiosamente incontro.
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