The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun (2021), è l’ultimo sforzo di un autore che è ormai stato completamente rapito, e in quest’opera lo si può vedere davvero da vicino, dal cinema europeo che, allo stesso ugual modo della cultura giapponese, va a formare l’universo magico-realista di Wes Anderson. A distanza di sette anni da The Grand Budapest Hotel, ambientato in una cittadina immaginaria dell’Est Europa, Anderson rimette piede sul vecchio continente, stavolta in Francia dove ambienta con la sua inimitabile poetica una storia (più storie), che ruotano attorno alla sfera del giornalismo.
In un’epoca storica in cui la ricezione della cultura, ma soprattutto la produzione e la distribuzione della cultura, si sono ampliamente generalizzate, tutti sono ormai abili fotografi o chef; qualsiasi individuo che sappia gestire un blog letterario o di cinema è quindi un critico in tutto e per tutto. The French Dispatch, a suo modo, con i suoi tempi strampalati, con i volti ormai connessi indissolubilmente al cinema di Anderson e con questa regia fumettistica, cinica e favolistica, ci dà una lezione di giornalismo. Perché l’opera in questione si apre e si chiude all’interno di una rivista americana, con sede nella cittadina francese di Ennui, attraverso alcune fasi rappresentate, come presentato nelle scene iniziali, da un necrologio, tre articoli e da una nota di chiusura.
La trama di The French Dispatch (2021)
Con la morte del direttore del giornale The French Dispatch, Arthur Howitzer Jr., interpretato da Bill Murray, uno degli attori feticcio di Anderson, tutte le future pubblicazioni dovranno essere bloccate per sempre. Solo un ultimo numero darà definitivamente l’addio al giornale; numero che conterrà il necrologio del defunto direttore e tre dei migliori articoli pubblicati in edizioni passate. Questi pezzi riassumono la missione del giornale, durata in tutto quasi un trentennio.
Il pezzo d’addio si apre con il reportage in bicicletta per le vie e i quartieri della città di Ennui da parte di Herbsaint Sazerac (Owen Wilson). Il reporter descrive la città mettendo a confronto ogni singolo luogo con il passato e il presente, mostrando i suoi cambiamenti. La prima ripubblicazione, invece, vede come protagonista una delle redattrici del French Dispatch, J. K. L. Berensen (Tilda Swinton), impiegata nella sezione delle arti. La donna racconta la vicenda che ha avuto luogo nel carcere di Ennui e in particolar modo tra il mercante d’arte Julien Cadazio (Adrien Brody), arrestato per evasione fiscale, e lo psicopatico Moses Rosenthaler (Benicio Del Toro), pittore mentalmente disturbato che ha come musa ispiratrice del suo lavoro la guardia carceraria Simone (Léa Seydoux).
Il secondo articolo è scritto dall’algida Lucinda Krementz (Frances McDormand), che nell’imparziale intento di registrare le lotte studentesche scoppiate in città, finisce con l’avere una fugace storia d’amore con il leader della rivolta, il giovane Zeffirelli (Timothée Chalamet). Nonostante la giornalista provi a restar fuori dai disordini giovanili, Zeffirelli e la lotta che costui sta portando avanti, nota sotto il nome di “Rivolta della scacchiera”, lasceranno una ferita aperta nella vita di Lucinda, che cercherà tuttavia di mantenere lo stesso, severo contegno di prima. Si arriva poi all’ultimo pezzo, che vede protagonista Roebuck Wright (Jeffrey Wright), addetto alla sezione culinaria, il quale racconta il rapimento del figlio del capo della polizia (Mathieu Amalric) e del suo cuoco personale, l’asiatico Nescaffier (Stephen Park), rinomato per le sue pietanze paradisiache.
Wes Anderson ripercorre la storia del giornalismo e non solo
Oltre ai già citati protagonisti, il regista di The Royal Tenenbaum e L’isola dei cani, mette insieme vecchi e nuovi volti che hanno dato e danno a quest’opera una natura per metà europea e per metà americana. Nella sezione riservata ai caratteristi, Anderson si affida ad attori del calibro di Bob Balaban, Jason Schwartzman, Liev Schreiber, Tony Revolori, Saoirse Ronan, Henry Winkler e Denis Ménochet. In alcune scene compaiono anche Edward Norton, Willem Dafoe e Christoph Waltz.
Con un cast corale davvero sensazionale, Wes Anderson ricerca l’umanità in un film che ripercorre, in parte, la storia del giornalismo. È perciò un atto d’amore, come lo stesso Anderson lo ha definito, nei confronti di quei giornalisti che hanno lasciato al mondo cronache e reportage che, seppur incentrati su eventi o persone terribili, hanno cercato di concludere ogni pezzo nella maniera più dolce possibile. The French Dispatch è storia del giornalismo ma è anche un tributo al cinema francese e in generale quello europeo; nell’opera si ravvisano sequenze già viste, omaggi spesso velati, ed episodi che strizzano l’occhio al Novecento (l’epoca in cui Anderson sembra essersi fermato).
Ed è proprio nella contemplazione del XX° secolo che il regista costruisce non enormi affreschi, ma piccole tavole dagli innumerevoli dettagli, che rasentano i colori accesi dei pittori fiamminghi e i piccoli frati di Norberto, incastonati sempre in mezzo agli ulivi e alle mura di una qualche città medievale. Anderson punta anche al semplice schizzo e al fumetto, mentre in altre scene preferisce intervallare un bianco e nero che davvero imita i grandi film francesi della Nouvelle Vague; spesso va ancora più indietro, soffermandosi al Neorealismo o andando a ricercare l’espressionismo del cinema tedesco degli anni Venti.
Gli ambienti e i tipi umani di Anderson
Come Kubrick realizzava film in base a una particolarità umana da analizzare, così fa Wes Anderson, anche se il suo occhio indagatore preferisce intagliare minuziosamente un ambiente ideale e più congeniale. Anderson non analizza solamente tipi umani ma soprattutto spazi; e gli spazi da lui creati sono sempre affascinanti, ricchi di dettagli; piccoli, sì, eppure tutto il mondo sembra fermarsi in quella singola scena, in quel preciso habitat, che sia una cella di un carcere o la pizza di una città.
Stando a quanto si vede, è lo spazio architettonico che l’uomo ha costruito l’elemento fondamentale che finisce per deformare quel particolare individuo. Per ritornare al concetto sopracitato, i film di Anderson, e The French Dispatch ne è l’ultimo esempio lampante, non sono enormi tele di uomini, bensì quadri più piccoli raffiguranti palazzi stretti, strade scoscese, bar e tram che si sono striminsiti; ma al loro interno c’è l’infinita ed eterogenea umanità del regista. Un’umanità divisa, conformista e anticonformista al contempo, unita da uguali valori o simili amori.
Anderson è abile anche nel tratteggiare i suoi personaggi che in ogni suo film emergono, soprattutto i protagonisti, con prepotenza e grazie a delle stranezze. Ci eravamo affezionati al consierge Monsieur Gustave H. e al suo fidato garzoncello Zero in The Grand Budapest Hotel. In The French Dispatch veniamo a contatto con svariati tipologie di individui “andersoniani”, come quello di Moses Rosenthaler interpretato da Benicio Del Toro. Alla fine tutto torna alla redazione del giornale in cui nuove storie arrivano e dove queste vengono sapientemente rimodellate, senza però stravolgerle da colui che consegna l’informazione alla massa. Anderson venera la figura cronista e lo colloca nell’epoca a cavallo tra gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta dove ancora i social sono solamente un incubo lontano.
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