All’indomani dello spettacolo Tango del calcio di rigore abbiamo avuto il privilegio di poter chiacchierare per un’oretta con il regista Giorgio Gallione. Ciascuno di noi gli ha posto le proprie domande, basate sugli spunti e selle curiosità che la rappresentazione gli ha suscitato. Ogni spettatore è unico, perché unica è la sua prospettiva, il suo orizzonte di attese. Ci è dunque sembrato giusto dividere qui l’intervista in tre momenti, o meglio tre racconti, ognuno narrato da un punto di vista particolare.
Il tutto è strutturato come se fosse un dialogo teatrale. Questo perché si tratta in fin dei conti di una semplice conversazione, tra uno dei più originali registi della scena italiana contemporanea e noialtri tre, tanto scapestrati quanto appassionati.
Dal pub al teatro – Origini dello spettacolo, lavoro con gli attori, uso della scenografia di Giorgio Gallione
28 febbraio
Ci risvegliamo nella nostra camera d’albergo, ancora un po’ intontiti dalla serata di ieri trascorsa al pub. Sarà la birra o il ricordo della signorina che ci ha serviti? Recuperata la motivazione, e con essa la decenza, ci prepariamo e usciamo dall’albergo, diretti ancora una volta al Gustavo Modena. La missione di oggi? Una chiacchierata con il regista sullo spettacolo di ieri sera, Giorgio Gallione.
Ripercorriamo la strada ormai memorizzata: in treno dalla stazione di Piazza Principe a Sampierdarena, poi tacco e suola fino al teatro. Mentre aspettiamo davanti all’entrata sono sempre più emozionato. È la seconda volta che incontro Giorgio Gallione. Mi aveva infatti concesso un po’ del suo tempo quando stavo scrivendo la tesi, incentrata su Grazie, un altro suo spettacolo tratto dal testo di Daniel Pennac, e già allora mi aveva fatto una piacevole impressione.
Dopo qualche minuto lo vediamo arrivare: in giacca grigia e sciarpa blu, con quel viso insieme distinto e disponibile che mi tuttora sorprende in una persona che, fino a qualche mese fa, credevo inavvicinabile. Ci guida nell’ingresso, ci fa visitare una sala un po’ nascosta che ieri ci era sfuggita e ci conduce per quel complicato intrico di scale e passaggi che porta fino al suo ufficio. Come l’ultima volta, non posso fare a meno di sbirciare il suo luogo di lavoro, in cui trovo mescolati saggi e fumetti, romanzi e racconti per bambini. Un lettore dall’anima eclettica. Ho l’impressione che i fogli sulla scrivania siano raddoppiati. Mi chiedo come faranno a reggersi, quelle vertiginose pile di libri e ritagli di giornale.
Da uno scaffale sulla destra fa capolino una cartina mezza aperta. Sulla copertina rossa, a lettere bianche, vedo scritto: «ARGENTINA-CILE». Ricordavo che Giorgio Gallione preparasse minuziosamente le proprie drammaturgie, ma questo! La passione per il proprio lavoro può dunque spingere a ripassare la tanto odiata geografia?
Scambiamo quattro chiacchiere per rompere il ghiaccio, poi accendo il registratore e incomincia l’intervista.
Da dove nasce l’esigenza di creare uno spettacolo sui rapporti tra calcio e politica?
GIORGIO GALLIONE: Le motivazioni per cui si inizia un lavoro sono spesso misteriose… Questo spettacolo è figlio di una collaborazione con Marcorè che va avanti da quasi quattordici anni. Ogni volta, verso la fine, iniziamo a chiederci: “e il prossimo quando sarà?”. Il mio compito è di fare proposte. Da una parte svolgo una grande attività di archiviazione di tutto ciò che leggo: romanzi, racconti… Paradossalmente leggo più letteratura che teatro. Dall’altra con Neri, senza dircelo in modo esplicito, tentiamo di lavorare su argomenti che abbiano a che fare con la contemporaneità, con il sociale. Che non siano insomma degli spettacoli “gastronomici”, come le commedie boulevardier, leggere, ma neppure spettacoli per così dire classici, che ci sono un po’ più lontani (senza nulla togliere a questi due generi). Avevo dunque due o tre temi che crescevano. Quando infatti, continuando a raccogliere materiale su un soggetto che mi interessa, incomincio ad averne abbastanza da darmi l’idea che potrebbe diventare uno spettacolo o un racconto teatrale, faccio partire una proposta.
In realtà avevo già fatto altri due spettacoli sul calcio. Il primo fu Tango del calcio di rigore 1990, da cui ho mutuato il titolo perché allora non fu un vero spettacolo. Erano i mondiali Italia ’90 e chiesero a me e ai Broncoviz di fare dei piccoli spot cabarettistici per una ventina di giorni, durante gli intervalli di pranzo. Una serie di “incursioni” in alcune piazze di Genova, montate su dei palchetti rimovibili. Da quell’esperienza era rimasto un po’ di materiale, oltre alla voglia e alla sensazione di poter teatralizzare il calcio senza fare discorsi elementari o faziosi. Circa dieci anni dopo Giuseppe Cederna mi aveva chiesto di lavorare alla drammaturgia dello spettacolo Gol tacalabala, una specie di varieté comico sul calcio con qualche sfumatura letteraria. Anche in questo caso il materiale raccolto ha aumentato l’archivio mentale di storie potenzialmente teatrabili legate al calcio, che ho poi ripreso quando abbiamo cominciato a ragionare con Neri di questa idea. Ho letto anche alcune notizie legate allo scandalo della Fifa, circa i mondiali di Russia e Qatar, che però non ho messo nello spettacolo. Leggendo mi sono infine imbattuto, non incoscientemente, nel ’78 argentino. Allora avevo molte storie sudamericane, di cui una sul rigore più lungo della storia del calcio, su “El Gato” Diaz, e un’altra sull’immaginario mondiale patagonico arbitrato dal figlio di Butch Cassidy. Quest’ultimo è anche il protagonista, insieme a Sundance Kid, dell’omonimo film del 1969 sulla vita dei due pistoleri gentiluomini, che rapinavano banche negli Stati uniti e furono costretti a scappare in Bolivia. Entrambi i racconti sono scritti da Osvaldo Soriano, un giornalista argentino morto pochi anni fa, anche lui giocatore e autore di narrazioni al confine tra il vero, il verosimile e il fantastico, un po’ alla Gabriel Garcia Marquez, nello stile del realismo magico sudamericano. Storie secondo me molto teatrabili, delle “favole di football” dalla radice verosimile, ma in realtà inventate. Avevo inoltre letto degli scritti di Ryszard Kapuściński, reporter di guerra, tra i padri del reportage contemporaneo per aver cominciato a trasformare le sue relazioni in racconti letterari dalla forte valenza narrativa. È sua, ad esempio, la storia vera de La prima guerra del football e altre guerre di poveri, tra Honduras e El Salvador, da cui ho attinto.
In seguito, cercando in maniera disparata, ho trovato tanti altri racconti che alla fine non ho buttato dentro. Ad esempio, L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra, di Gigi Riva, un libro abbastanza recente che racconta il rapporto tra calcio e potere. Nel 1990 la nazionale jugoslava stava giocando i quarti di finale contro l’Argentina a Firenze, quando nel loro paese scoppiò la guerra. I compagni di squadra si ritrovarono così in una nazione straniera senza sapere cosa fare, mentre le loro famiglie, che avevano sempre giocato e lavorato insieme, ora si sparavano le une contro le altre.
Grazie a queste letture sono arrivato piano piano ad avere materiale a sufficienza per tutti e due i pedali che mi interessavano: quello poetico-favolistico e quello politico. Questo bisogno di informarmi deriva dal fatto che ai tempi del mondiale in Argentina ero ragazzo. Mi ricordo abbastanza bene cos’era successo sul campo, ma non ricordo niente della dittatura, come metà della popolazione italiana, che non sapeva o, meglio, non doveva sapere. Come diciamo nello spettacolo, mentre nel ’73, in Cile, Pinochet rese plateale la repressione, come se fosse un gesto di forza per dire “chi è contro di me muore, e sia chiaro!”, la strategia argentina fu invece quella di occultare. Non a caso nacque una nuova parola, «desaparecidos».
Tutta questa documentazione costituiva la base teorica per un progetto nuovo, così siamo andati avanti. Inoltre, sebbene con Neri spesso facciamo spettacoli più monologanti, qui la natura del materiale ha richiesto l’uso di più voci.
Come nasce la collaborazione con gli attori? Con Marcorè e Dighero lavora da vari anni, ma gli altri? Fabrizio Costella, Rosanna Naddeo, Alessandro Pizzuto…
GIORGIO GALLIONE: I due ragazzi sono dei semi-debuttanti dal punto di vista dell’esperienza teatrale. Si sono diplomati un anno fa alla Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova e li avevo già visti recitare in alcuni saggi e spettacoli. Poi feci dei provini e vennero scelti. Da una parte per motivi musicali, perché Alessandro suona e canta molto bene. Dall’altra per motivi narrativi: lui e Fabrizio sono serviti a dare uno spettro di narrazione più giovanile (uno ha ventidue anni, l’altro ventitré). Sono stati inseriti specialmente nelle scene che presentavano uno stile particolare. Ci sono, infatti, due o tre livelli diversi di stile: uno più cronachistico, uno narrativo e poetico, e uno vicino a una sorta di straniamento brechtiano in cui si evocano dei personaggi, come “El Gato” Diaz o il barista Alvaro. Sei cioè in un territorio in cui alludi a un personaggio, continuando però a dire al pubblico, in questo senso “brechtianamente”, “io non sono il barista, sono un narratore che ora fa finta di fare il barista o l’arbitro per tre battute”. Per quanto riguarda Rosanna, sapevo che sarebbe servita una voce femminile, anche dal punto di vista musicale. Tutte le canzoni dello spettacolo, infatti, sono state originariamente composte per donna. Comprese quelle che canta Neri, tranne la primissima, una specie di prologo in spagnolo durante il quale il pubblico probabilmente si chiede “ma cosa diavolo sta dicendo?, siamo nel posto giusto?”, ma che a me piace da morire. A parte quella canzone, dicevo, tutte le altre nascono per voci femminili. Sapevo inoltre che avrei inserito una scena su una delle Madri di Plaza de Mayo. Con Rosanna lavoro, seppur non sistematicamente, dal ’92. Oltre al fatto che è mia moglie, anche se ciò non è stato decisivo. Con Ugo lavoro dall’85, facendo lui parte del gruppo storico dei Broncoviz, i cinque attori con cui ho fatto compagnia per tanti anni. Con alcuni di loro mi capita ancora di lavorare sporadicamente, con altri meno. Poi è entrata un’altra generazione di attori, di cui fa parte anche Rosanna, a metà degli anni novanta. Neri invece l’ho conosciuto nel 2004. Per cui sapevo di avere tre persone che conoscevano bene i codici narrativi a cui ero interessato, che non sono difficilissimi, ma nemmeno troppo abituali in palcoscenico: “A chi parlo? Al pubblico? Ma come devo raccontare?”. Devi riuscire, più che a dare carne, a rendere teatrale una serie di informazioni. In gran parte dello spettacolo diciamo cose di tipo giornalistico o cronachistico. C’era perciò bisogno di qualcuno che fosse in grado di “scaldare” tale stile, rimanendo in una sorta di nuvola epica o narrativa, attraverso l’uso di un linguaggio che loro conoscono molto bene.
Avrei una curiosità sulla scenografia. Le sedie utilizzate sembrano molto simili a quelle dell’altro suo spettacolo Quello che non ho, sempre con Marcorè.
GIORGIO GALLIONE: Non sono le stesse, ma, come in quel caso, il loro impiego è significativo. In molti spettacoli non hai un riferimento spaziale specifico, perché non c’è un luogo definito della narrazione. Mancano, in altre parole, le unità di luogo, spazio e tempo del teatro classico. In questo “teatro di narrazione”, o “di evocazione”, devi mettere il racconto nello spazio… del racconto, che rimane uno spazio metaforico. In più, negli spettacoli “a stazioni” come questo, dopo un po’ devi dinamizzare la scena per non creare assuefazione. Perciò i moduli, i tavoli o le sedie che ritornano spesso nei miei spettacoli servono sia a dare una piccola allusione che definisca il luogo in cui avviene il racconto, sia a modificare il rapporto tra chi narra e lo spazio scenico, per non correre il rischio di mettersi a parlare semplicemente al centro, come nella stand-up comedy. Devi cercare il più possibile di muovere teatralmente lo spettacolo, ma attraverso degli oggetti che abbiano una loro astrazione. Per questo le sedie sono tutte uguali, i tavoli tutti neri… Ci sono, ma in un certo senso li annulli. Non si tratta, ad esempio, della sedia riconoscibile perché di stile ottocentesco, o della poltrona della nonna, ma di volumi, funzioni, oggetti modulari che si spersonalizzano. Anche quella specie di bambù neri sono delle allusioni, che nascono da intuizioni visive scovate quasi per caso. C’è poi il suolo che, volendo dare l’impressione di essere in Patagonia, seppur non in maniera realistica, è stato coperto con un tappeto-specchio cosparso a sua volta di una graniglia di plastica che ricorda uno sterrato. O ancora il fondale, un po’ da arte povera, che nella mia fantasia voleva rappresentare un cielo patagonico… Anche se io in Patagonia non ci sono mai stato, quindi preferisco definirlo come un semplice fondo, un’altra suggestione.
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